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Il PCI e il mito dell’URSS

Creato il 23 settembre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
itoglia001p1di Michele Marsonet. Parlare dei rapporti tra il PCI e l’Unione Sovietica è ancora utile, tanto dal punto di vista storico quanto per analizzare meglio lo sviluppo della politica italiana (inclusa quella recente). Per comprendere l’essenza del comunismo contemporaneo non si può prescindere dalla sua componente messianica. Nello Ajello ha sottolineato nel suo libro “Intellettuali e Pci” che il campo socialista veniva visto dai militanti comunisti come “una Chiesa combattente”, inducendoli a spaccare in due la realtà in modo manicheo.

La lotta politica era concepita come un combattimento tra il Bene e il Male, con ciò essendo sottinteso che il marxismo costituiva la chiave per distinguerli in modo netto e schierarsi di conseguenza. Una volta convinti di aver individuato la verità, a sua volta incarnata in una ben precisa realtà storico-politica come l’Unione Sovietica (della quale pur si criticavano i limiti contingenti), non potevano sussistere dubbi sulla scelta da compiere.

Se si parte da queste premesse, la conferma basata sui documenti degli archivi di Mosca che la politica del Partito comunista italiana era per molti aspetti “guidata dall’esterno”, dovrebbe suscitare una sorpresa assai minore di quello che si è invece manifestata: la dipendenza del partito dalle direttive dell’internazionalismo proletario era un fatto scontato per chi, in quegli anni, militava nel campo comunista.

Il marxismo – soprattutto nella sua versione leninista – è stato una grande utopia, probabilmente la maggiore degli ultimi secoli. Chi vi aderiva entrava a far parte di un sistema etico-ideologico globale che offriva agli adepti un’interpretazione totalizzante della realtà. Non è quindi difficile comprendere che il militante comunista era condotto a giustificare ogni eccesso in vista del conseguimento di un obiettivo di ordine superiore: la fine dello sfruttamento e la realizzazione di una società senza classi.

A tale riguardo è sufficiente leggere la storia del Partito comunista italiano scritta da Togliatti, e ristampata molte volte dagli Editori Riuniti, per capire che le cose stanno così. Nelle sue pagine la nascita e il successo del partito hanno un carattere di necessità; in altri termini i comunisti – a differenza degli altri – avevano rettamente compreso il vero significato della storia e delle leggi che ne regolano lo sviluppo.

Non si trattava dal punto di vista togliattiano di una corrente di idee tra le altre, ma di un movimento che usciva dal profondo dell’ordinamento sociale ed era, secondo le parole del leader comunista, “storicamente necessario”. Tale sviluppo poteva subire battute d’arresto momentanee, ma non interrompersi: la società senza classi era il risultato cui la storia avrebbe condotto in modo inesorabile, indipendentemente dalla volontà dei singoli individui.

Si noti tra l’altro che queste considerazioni togliattiane, certo datate ma pur splendide nella loro chiarezza, non risalgono alla svolta di Salerno, bensì ai tardi anni ’50 del secolo scorso. Non siamo in presenza di confuse teorizzazioni à la Marcuse, bensì di uno schema concettuale inflessibile, in cui ogni parte si muove con la sincronia dei movimenti di un orologio.
Si può allora concludere che per comprendere il marxismo e l’azione dei partiti che a esso si rifacevano occorre riconoscere che i comunisti “credevano” nel senso religioso del termine, e vivevano all’interno di un mito di cui l’Urss costituiva l’incarnazione, per quanto ammissibilmente imperfetta. Chi non tiene conto di questo fatto corre il rischio di avere una visione incompleta di molte vicende della storia recente, italiana e non.

Featured image, Palmiro Togliatti


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