IL PEDONE L’ALFIERE, di Giuseppe Germinario

Creato il 18 gennaio 2013 da Conflittiestrategie

L’attuale campagna elettorale, a differenza delle precedenti dell’ultimo ventennio, ha il merito di lasciar affiorare almeno occasionalmente alla attenzione del grande pubblico i reali temi di scontro e confronto politico i quali altrimenti, da tangentopoli in poi, sono stati seppelliti e nascosti dalle campagne moralizzatrici, dalla retorica europeista e dalla tifoseria pro/antiberlusconiana. Merito senz’altro della posta in gioco nella scacchiera geopolitica, dei conflitti che la ricomposizione delle gerarchie comporta nei campi amici e tra i campi avversari nella loro disposizione mutevole, della rideterminazione dei blocchi sociali attorno alle elites in conflitto/cooperazione; blocchi sociali, quindi che costituiscono la carne necessaria a produrre e consumare le risorse e dare l’energia necessarie al conseguimento degli obbiettivi.

Sono rari i momenti in cui si concedono in pasto al grande pubblico le questioni essenziali del contendere e le dinamiche reali dei conflitti tra i vari gruppi dirigenti; sono i momenti in cui la presenza di gruppi realmente alternativi può essere determinante per rovesciare il tavolo da gioco e rideterminare il campo e le regole di azione; al momento è, però, solo una pia aspirazione anche se, rispetto ad alcuni anni fa, già parlarne con almeno l’embrione di chiavi interpretative adeguate rappresenta un passo avanti.

I tre protagonisti della campagna elettorale sono ormai noti: il PD con il suo segretario Bersani, Monti e Berlusconi.

IL PEDONE

Il primo da circa tre anni ha avviato una riorganizzazione e un rinnovamento che ha permesso un certo rilancio del partito basato sull’arduo tentativo di conciliare una politica anticiclica pallidamente keynesiana di spesa, di rigore e imposizione fiscale, di sviluppo legato e dipendente dal riconoscimento di diritti sociali con la stretta osservanza dei dettami europeisti; un ardimento che sta assumendo ormai connotazioni truffaldine, stando alle dichiarazioni sulla stampa estera non corrispondenti a quelle sulla stampa nazionale. Se a questo si aggiunge la relativa ingannevole sicumera circa l’esito elettorale e la rappresentatività ecumenica delle candidature, allora appare tracciata la strategia di una campagna basata sulla mera reazione alle mosse dell’avversario e sul contenimento dei processi di logoramento.  Con le debite proporzioni, più o meno lo schema di battaglia dei Persiani achemenidi  contro le città greche del V secolo a.C. L’unica azione preventiva tesa a prefigurare quantomeno i soggetti destinati a condurre le future trattative con Monti e ridurre l’azione di infiltrazione dello stesso nel partito con la nuova legislatura è stata la pressoché totale estromissione dei filomontiani dichiarati dalle candidature; per il resto, al momento, si rimane ai semplici richiami alla moderazione delle forze cosiddette antipopuliste e all’invocazione del voto utile. Il PD meriterà un articolo a sé stante in proposito

La settimana scorsa due eventi, uno di alto valore scenografico, l’altro di “sobria” tracciatura politica, hanno scombussolato la rigida pianificazione prevista dal vincitore “predestinato” di queste elezioni: lo show di Berlusconi a “Servizio Pubblico” di Santoro di giovedì e l’intervento di Monti all’assemblea dei “liberal” del PD su «Riformismo versus populismo»  di sabato 12, quest’ultimo preceduto dalla candidatura di Albertini in Lombardia per conto delle liste montiane.

LA DAMA

La performance di Berlusconi ha avuto un grande merito: ha svelato al grande pubblico, compreso quello di sinistra, più propenso a farsi abbindolare dalla retorica europeista,il rapporto conflittuale esistente tra gli stati della Comunità illuminandoci sui colpi bassi che la Germania di Merkel e la Francia di Sarkozy hanno perpetrato ai danni dell’Italia procedendo alla vendita di titoli pubblici italiani nel 2011 e imponendo il rientro a ritmi draconiani del debito sulla base di parametri capziosi. Lo ha fatto a modo suo, dimenticando che Deutsch Bank, l’artefice iniziale principale di quegli acquisti, non è ormai una banca soltanto tedesca e che alla manovra hanno partecipato a pieno titolo istituzioni finanziarie e di controllo americane e collaborato anche soggetti nazionali; omettendo la sua accettazione di quei parametri europei, compresi quelli relativi ai fondi di garanzia bancari e con l’aggiunta dell’anticipazione volontaria del  rientro del deficit al 2012; facendo scadere a complottismo la reale trama perpetrata ai danni del paese e del Governo quando fissa nell’estate del 2011 il punto di svolta di una crisi che era scoppiata anche in  Italia già alcuni anni prima in un quadro di declino ormai più che decennale del paese.

La peculiarità e la violenza della crisi attuale in Europa dipendono in realtà soprattutto dalla subordinazione politica dei vari paesi del continente, sancita addirittura dal Trattato di Lisbona e dall’accumularsi degli squilibri determinati dall’accordo di Maastricht, dall’introduzione dell’euro, dall’attuale configurazione del mercato europeo e dallo scoraggiamento di qualsiasi politica industriale comunitaria tesa a creare settori industriali strategici. Tralascio per carità di patria le accuse di Tremonti sulla manina italiana che avrebbe assecondato le letterine varie dell’Unione Europea propedeutiche all’estromissione dell’allora Ministro dell’Economia, in realtà, successivamente, dello stesso Governo Berlusconi; se confermate, sarebbero un ulteriore atto d’accusa gravissimo sulla porosità rispetto alle interferenze esterne di un rissoso e supino ceto politico nazionale. Sono contraddizioni e incongruenze scivolate con leggerezza nel corso della trasmissione per le capacità acrobatiche indubbie del personaggio, ma soprattutto per l’ignavia e la complicità omertosa dei giornalisti. Non una parola o una domanda, da parte di questi, sulle sue giravolte ignominiose in politica estera, a cominciare dalla Libia e dalla Russia, in buona compagnia dei suoi ex omologhi francesi, inglesi e americani ma con qualche pacca amichevole di troppo sulle spalle della vittima designata e sacrificio di troppo degli interessi nazionali stessi; nessun interrogativo sull’estraneità e sul defilarsi dell’Italia dai rari autonomi processi di costruzione industriale europei (AIRBUS, aerospaziale,  aeronautica). Non erano in grado di porle perché accecati e specializzati, in realtà guidati ormai da un vero e proprio riflesso condizionato, da oltre vent’anni ormai di esclusiva attenzione verso le prodezze personali vere e presunte del Cavaliere e le sue cadute di bon ton; non avrebbero del resto nemmeno potuto comportarsi diversamente perché alla complicità riottosa di Berlusconi, ha corrisposto una loro complicità affettata ed ossequiente a quelle stesse scelte, ancora più perniciosa, dell’area politica che essi rappresentano. Alla fine della trasmissione hanno confidato, per disperazione ed inerzia, sul solito repertorio moralistico e giudiziario  cui Berlusconi ha reagito con due colpi da maestro di scarsa classe ma di grande effetto ribaltando su Travaglio l’onta ed il fardello delle sentenze giudiziarie. Il risultato finale è stato quello di due comparse femminili nella veste di giornaliste, non ostante la recente avvisaglia subita dalla Costamagna ad opera della Carfagna, un inquisitore finito sullo sgabello degli imputati e Michele Santoro nella veste di Don Chisciotte, ma con la consolazione di indici di ascolto astronomici, utili al suo tornaconto. Il probabile canto del cigno del tribuno televisivo.

Il risultato più incisivo ottenuto dal Cavaliere è stato il disorientamento insinuatosi nella militanza avversa ancor più del consolidamento della convinzione nel proprio schieramento ed il recupero di una parte della propria area partigiana.

Sta di fatto che l’esito di quella performance ha determinato il rientro a pieno titolo di Berlusconi nella tenzone elettorale. La radicalità di buona parte dei suoi argomenti, per altro già prospettati in altri miei articoli, lascia perplessi. La loro ripetizione durante la campagna, la loro brutalità di esposizione o l’eventuale accomodamento ci faranno capire se si tratta di temperamento personale, di scelte disperate legate al recupero dell’insofferenza di gran parte del proprio elettorato o di calcolo legato ad effettivi spazi concessi da qualche “manina d’oltreoceano” magari non del tutto in accordo con le manine gemelle attualmente al comando. Il personaggio, pur riconoscendogli l’attenuante dell’eccezionale pressione subita in questi vent’anni e il pregio della indubbia abilità tattica, ci ha abituato a giravolte spettacolari. Questa volta saremmo però alla turlupinatura più smaccata. Nel peggiore dei casi, un buon test sulle possibilità di raggiro delle masse; in un altro si tratterebbe di un processo pilotato di divaricazione degli interessi dei paesi europei, comunque interno alla Unione, con l’Italia impegnata per conto terzi nel Mediterraneo e la Gran Bretagna impegnata a contenere le tentazioni verso est della Germania. Il recente pesante intervento americano su Cameron per frenare la tentazione di fuoriuscita dall’Unione Europea può essere un indizio di queste dinamiche; le perplessità di Giuliano Ferrara sulla condotta adottata dal Cavaliere lo sono altrettanto circa l’incertezza della traiettoria scelta dal Cavaliere.

L’ALFIERE

Ben più complessa appare l’articolazione del discorso e dell’azione svolta da Monti.

Dal momento della sua esplicita discesa in campo, avvenuta di fatto con l’istigazione tesa a indurre Berlusconi a rompere le righe della coalizione filogovernativa, il Professore ha parlato esplicitamente del superamento della logica destra/sinistra e della costruzione di una nuova logica di schieramento bipolare basata sugli europeisti da una parte e i “populisti” dall’altra.

Non si tratta di una novità assoluta; già da diverso tempo Monti stava affinando questa posizione in numerosi articoli e in un recente libro scritto a quattro mani assieme a Sylvie Goulard. La contingenza politica gli ha consentito di tradurla in un appello alla raccolta dei vari cespugli europeisti presenti nei vari partiti sotto la sua guida politica in una unica magione. Non si sa quanto fossero sincere e quanto propagandistiche le aspettative di un esodo biblico di queste forze in particolare dal PD e dal PDL; sta di fatto che, rientrate almeno per il momento le tentazioni centrifughe nei due partiti senza quasi colpo ferire, fallita persino la dissolvenza del partito di Casini nel movimento civico pro-Monti, registrata la conseguente clamorosa retromarcia di candidature pesanti come quelle di Passera, Riccardi e Montezemolo, rientrato il sostegno esplicito della componente episcopale e collaterale della Chiesa Cattolica, Monti ha dovuto riconsiderare le ambizioni puntando ad innestare più prosaicamente la nuova “visione verticale europeista contrapposta al populismo alla classica e residuale divisione orizzontale destra/sinistra” tuttora radicata nel paese.

Il Professore della Bocconi ha dovuto prendere atto che il processo di logoramento degli schieramenti “orizzontali” potrà riprendere con vigore solo dopo le elezioni e potrà essere tanto più rapido quanto più la sua compagine sarà determinante nei futuri equilibri e nella formazione del governo di coalizione assieme al PD. Molti indizi inducono a pensare ad un suo impegno di lunga lena e a un tentativo di costruzione di partito.

È indubbio, però, che la stessa presenza di Monti nella competizione, pur con la estrema modestia, tra poche eccezioni, della caratura dei suoi sostenitori diretti e la annunciata disponibilità alla collaborazione, ha innescato dei processi ben visibili i quali stanno mettendo in pericolo la marcia trionfale prospettatasi agli occhi del gruppo dirigente del PD e nell’abbrivio della gara.

Ha ridotto considerevolmente il bacino di riferimento di Vendola con la nascita di una ulteriore lista cosiddetta a sinistra; sta erodendo una parte dei consensi “liberal” del PD, soprattutto in alcune regioni chiave; sta radicalizzando la collocazione del PDL di Berlusconi pur con tutte le mistificazioni e le omissioni più volte individuate.

Ci sono, quindi, tutte le premesse perché la “resurrezione” radicale di Berlusconi, più che un rimescolamento reale delle carte, offra l’occasione di un primo innesto concreto di quell’asse verticale prospettato da Monti con almeno uno degli assi orizzontali dello scenario classico italiano, il centrosinistra comprese le sue componenti più sinistrorse sempre disponibili a contribuire alla “salvezza democratica” del paese; quella stessa “resurrezione”, d’altro canto, unita al ridimensionamento dei propositi di Monti e all’annacquamento demagogico dei suoi contenuti, ha per il momento già chiuso buona parte degli spazi di discussione e polemica che possano favorire la formazione di autentiche forze sovraniste.

Un successo significativo di Berlusconi potrebbe, teoricamente, indurre ad una quantomeno tacita alleanza per la sopravvivenza dell’asse “orizzontale” ai danni di Monti; un passo però dirompente soprattutto riguardo alla sopravvivenza del PD.

Un quadro, quindi, ancora poco confortante in grado di ritardare ulteriormente la formazione di un gruppo dirigente in grado di gestire positivamente i grandi rivolgimenti che sconvolgeranno il paese.

L’unico elemento realmente destabilizzante è rappresentato dalla straordinaria pochezza quantitativa e qualitativa dello schieramento messo in piedi direttamente da Monti. È il segno di quanto poco abbia da offrire agli italiani il suo programma, di come siano a gestire questo processo i settori residuali dei centri dirigenti, dalla scarsa capacità egemonica e dalla rappresentanza dei settori più parassitari e collaterali

L’intervento di Monti ad Orvieto ( http://www.radioradicale.it/scheda/369962?format=52 ), unitamente alla relazione di Funiciello, è di una chiarezza abbagliante riguardo ai propositi politici e al retroterra culturale che informa l’impegno suo e di chi gli sta dietro.

Merita di essere ascoltato più volte; su quello, sul suo ultimo libro e sugli ultimi saggi di Habermas in tema di europeismo e di governo mondiale mi soffermerò in un prossimo articolo, proprio perché tracciano con chiarezza i termini di buona parte del dibattito dei prossimi anni su cui ci dovremo scontrare perché distorsivi dei reali contenuti del confronto geopolitico in corso.

Per il momento mi limiterò ad alcune citazioni significative del nostro:

  • Quel vituperato sistema consociativo che in Italia va condannato e sostituito, nelle istituzioni europee deve essere invece sostenuto perché la Commissione Europea deve operare con stati nazionali governati da esecutivi con diverso orientamento politico
  • La Commissione Europea è “quasi un partito”; la sua missione è perseguire l’integrazione europea
  • Il Parlamento Europeo svolge ormai una funzione molto più importante ed essenziale di quanto non mostrino le apparenze; buona parte delle pressioni lobbistiche, infatti, (illuminante l’esempio addotto) si sono estese se non trasferite negli ambienti parlamentari
  • È necessaria una riformulazione del rapporto tra tecnocrazia e democrazia (citazione dal libro)
  • Gli attuali problemi nascono più dalle politiche nazionali che da quelle comunitarie; nei paesi si agisce secondo una visione di breve termine rispetto alle prospettive europee di lungo termine
  • Le politiche concrete degli stati nazionali sono di fatto contrarie all’istituzione del mercato unico europeo; operano troppo spesso per la salvaguardia della propria grande industria nazionale
  • Occorre eliminare il fenomeno di dumping fiscale tra gli stati in quanto mette in pericolo il welfare e quindi l’applicazione dei principi dell’economia sociale di mercato
  • Il populismo è un fenomeno presente in tutti i paesi europei, non solo in quelli mediterranei

Per il momento mi limiterò a dei giudizi approssimativi su questa visione:

  • Una concezione arida ed economicistica della costruzione di una stato europeo, senza nemmeno sentire la necessità di nominarlo
  • La riconduzione dogmatica ed autoritaria di ogni ipotesi di Unione Europea o di alleanza tra stati europei all’attuale processo di integrazione
  • Il riconoscimento del ruolo delle élites, identificate con i tecnocrati, nella gestione del processo e il totale disconoscimento della rappresentazione culturale ed ideologica necessarie a costruire un blocco sociale ed una comunità attorno ai gruppi dirigenti
  • Il disconoscimento completo dei legami della presunta tecnocrazia con i centri di potere reali, in particolare quelli che hanno storicamente determinato e orientato il processo unitario, quindi quelli americani usciti vittoriosi dalla seconda guerra mondiale e dalla guerra fredda
  • La considerazione che la mancata definizione e soprattutto attuazione di regole comuni nella gestione della finanza pubblica e nell’introduzione del mercato unico sarebbero il fondamento degli squilibri tra i vari paesi europei, della crisi dello stato sociale e del mancato sviluppo economico; la diversità di comportamento rappresenta, a mio parere, invece la diversa capacità di azione degli stati europei, il tentativo di predominio da parte dei più forti e di resistenza passiva da parte dei più deboli. Non essendoci regole e norme neutre, la loro eventuale piena attuazione sancirebbe, a mio parere, semplicemente il predominio duraturo delle componenti nazionali più solide.
  • L’enfasi con cui Monti stigmatizza il carattere regressivo della difesa delle grandi aziende nazionali sottende la concezione che sia l’economia a determinare il resto e in essa il mercato ottimale costituito da agenti individuali (imprese e persone) dimensionati in modo da operare sulla base esclusiva del criterio del miglior prodotto al minor prezzo possibile utilizzando presunti parametri comuni di valutazione e da garantire la scelta ottimale dei consumatori. Una visione del tutto riduttiva delle dinamiche che muovono l’economia, per non parlare dell’interazione del tutto disconosciuta di essa con gli altri ambiti dell’agire collettivo (politica, cultura, ideologia, ect) in un contesto, quello europeo, in cui la dimensione delle imprese è per altro largamente inadeguata.

Una rappresentazione  che porta ad indebolire la forza e la sovranità degli stati nazionali europei in nome di una nuova entità priva di forza propria e del collante ideologico e culturale necessari a tenerla in piedi onorevolmente.

Monti sa benissimo che la entità statuale europea da lui auspicata avrebbe bisogno di strutture amministrative e coercitive autonome, di risorse economiche di bilancio venti volte le attuali e di lunghi processi identitari; non ha compreso che per realizzarli sono necessari centri di potere e nervature che solo stati nazionali consapevoli e sovrani, ma disposti a trattare, possono creare, mentre la sua azione mira, in linea con il metodo funzionalista teorizzato da Monnet,a indebolirli sistematicamente; a differenza dei federalisti utopisti, intuisce l’irrealizzabilità in tempi storici prevedibili di quegli obbiettivi; tanto è vero che si rifugia nella politica dell’indebitamento europeo e della concertazione tra stati per proseguire nell’accentramento e nell’integrazione. La naturale conseguenza di questa cecità si risolve con l’investitura illuministica di tecnocrati apparentemente guidati dalla “ragione tecnica”, per di più incomprensibile se non ostile alla massa; in realtà impegnati in una sintesi tra le mire di una Germania incapace da sola di conseguire la forza necessaria a sganciarsi dal polo atlantico ma in grado di assumere un ruolo regionale subordinato e l’obbiettivo del mantenimento del dominio e della regia americani nell’area euro-mediterranea. La conseguenza paradossale è che l’universalista e sovranazionalista Monti è costretto ad appoggiarsi alle forze più particolariste e collaterali per tentare di realizzare il “proprio” progetto, giusto per utilizzare un eufemismo sulla titolarità delle intenzioni; proprio quelle forze  su cui si scagliano da decenni gli anatemi più ipocriti e che stanno conducendo al declino e all’asservimento del paese.

Se non è questa “demagogia populista”?


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