Magazine Cultura
di Pierluigi Montalbano.
Strabone, a proposito dei Diaghesbei (gli antichi Iolei), scrive: “…molti i centri abitati, ma solo Carales e Sulky sono importanti…”. Effettivamente durante il periodo romano non pochi erano anche i centri costieri, abitati da comunità dedite alla pesca, alla cantieristica navale e al commercio marittimo. Questi piccoli centri erano collegati ai porti sardi più importanti, ed erano tra loro connessi da una rete “stradale” sia costiera sia interna. Sui pochi dati disponibili, con l’aiuto del bel libro di Giuseppe Luigi Nonnis “Marinai sardi nella flotta di Roma Antica”, possiamo immaginare un periplo della Sardegna, facendo rotta da Occidente per trovare questi antichi abitati.
E’ l’alba…e saliamo a bordo della nostra nave nel porto di Karalis per compiere un servizio di vigilanza costiera sotto costa. C’è aria di festa a bordo, e i marinai sono impegnati nelle operazioni di carico. Nonostante siamo in Giugno, il fresco si fa sentire e i gabbiani volano alti sui rematori che iniziano a vogare con energia per lasciare il porto. La rotta è sud-ovest, e incrociamo due navi mercantili, larghe e pesanti, cariche di anfore colme di carne e vino, dirette verso le coste africane. Un’altra oneraria, con le vele quadrangolari gonfie, si avvicina al porto inseguita da un brulichio di uccelli. Prendiamo il largo lentamente, mentre i vogatori sbuffano per la fatica. La città, priva di mura, si allontana e un orizzonte blu ci attende per le prossime ore. Issiamo le vele, mentre i rematori sollevano alti sulle onde i lunghi remi grondanti, ritirandoli all’interno dello scafo. Dopo alcune ore di mare tranquillo, con la grande vela gonfiata dalla brezza, si apre il paesaggio costiero di Nora, un fiorente approdo che ospita nella baia numerose piccole imbarcazioni a vela. Mentre il sole è già alto, la nostra barca viaggia da ore con i remi alti, sospesi sui flutti come le ali di un gabbiano, e punta la prua più a sud. Mentre usciamo dal Golfo di Karalis appare a dritta l’acropoli di Bithia, un agglomerato di case che svetta dall’alto del promontorio. Doppiamo il capo col vento che si va rinforzando e scorgiamo il villaggio di Tegula (Teulada), con le sue case basse poste sulla riva del mare. Ora la nave inizia a risalire le coste occidentali dell’isola con rotta nord-ovest.
Puntiamo su Sulky mentre il sole tramonta, e mentre la città si avvicina, a bordo si ammaina la grande vela e i rematori iniziano le manovre di avvicinamento all’approdo. Ormai alla fonda, si cala l’ancora di legno e piombo e la nave si ferma. La notte è imminente e occorre attendere il nuovo giorno per riprendere il mare aperto. All’alba ci lasciamo indietro la bianca Sulky, e costeggiamo Inosim, l’isola dei falchi (San Pietro). Avviamo una lunga navigazione di cabotaggio durante la quale la nostra imbarcazione deve controllare con i rematori il vento di traverso.
Una nave oneraria naviga più a largo, con un vento favorevole, discendendo con la vela gonfia di maestro per dirigersi a Sulky. Grazie al cielo il maestrale si mantiene moderato e riusciamo a raggiungere il Golfo di Oristano quando il sole è ancora alto. Troviamo la baia di Neapolis (Santa Maria di Nabui), che i punici indicheranno come Qar thadst, la città nuova. Dopo qualche ora di navigazione all’interno del golfo increspato, ecco apparire con i suoi templi e le sue terme, le antiche muraglie e il porto di Tharros, la splendida città che domina la Penisola del Sinis. Nel porto alcune navi completano le operazioni di carico e scarico e i marinai provvedono all’acquata. Approdiamo in una banchina che si protende davanti al porto, con la vela calata e i remi che sfiorano appena la superficie ormai scura del mare.
All’alba, i remi mossi con disciplina dall’equipaggio spingono al largo la nave, direzione nord, fino a giungere lentamente in vista di Cornus, futura patria di Amsicora, il latifondaio sardo-punico che organizzò una fase della resistenza alla romanizzazione dell’isola. Il vento scostante di nord-ovest costringe la nave a manovrare alla ricerca della brezza giusta. Risalendo con continue accostate e con l’appoggio dei remi, ammiriamo la bellissima riva, in gran parte rocciosa e poco ospitale per navi di stazza importante. Dopo una giornata di fatiche, ai remi e alla vela, eccoci a Bosa, sulle rive del Temo. Il fiume è parzialmente navigabile e la nostra barca, procedendo con cautela guidata dal vigore dei rematori, approda poco entro il fiume, quanto basta per stare al riparo dai marosi della foce. L’equipaggio può ora riposare vicino alle barche dei pescatori. Quando il sole inizia a sbiancare il cielo, annunciando il nuovo giorno, la nave riprende il largo e i rematori si impegnano per evitare i flutti della foce che si frangono pericolosamente fra gli scogli affioranti. Finalmente in mare aperto, la nave sfrutta il vento teso che la fa scivolare verso nord. Dopo alcune ore si giunge in vista di Carbia, nel territorio di Alghero, e aggirato il Portus nimpharum, con le sue magiche grotte sacre al dio del mare, approdiamo a Nure (Porto Ferro). Il vento rinforza e la barca attraversa rapida lo stretto lasciando a sinistra l’isola di Sinusaria. Alcune ore dopo si approda in quel che qualche secolo dopo sarà il principale porto romano del nord Sardegna: Turris Libisonis. Dal bordo si distingue una grossa oneraria che prende il largo scarrocciando a dritta, diretta in Etruria. Se il vento e le correnti sono stati favorevoli, l’equipaggio della nostra nave potrà scendere a terra e consumare il banchetto in onore degli dei, ascoltando e narrando le storie delle famiglie aristocratiche etrusche e sarde. Anche all’epoca il gossip era praticato. Quando è l’alba, qualche membro dell’equipaggio sente la testa pesante per il forte vino sardo, pur stemperato col miele, ma il viaggio deve riprendere. Sempre in vista di costa, beccheggiando sulle onde per alcune ore, si arriva al traverso di Vignola e, proseguendo a buona velocità mentre aumentano i venti e il mare si ingrossa, si approda a Tibula (Santa Teresa di Gallura). Sugli scogli affioranti, alcuni cormorani scarmigliati dal vento, guardano distratti verso il mare. Cercando di mettersi sopravvento, qualche gabbiano galleggia sull’aria con le grandi ali distese, curiosando sopra la nostra nave. Per lui non c’è tempesta, ma così non è per l’equipaggio e per la nave. Il sole calante e i venti irregolari a raffiche, inducono i rematori ad entrare in azione. Il comandante fa calare la vela e si voga energicamente cavalcando le onde in cerca di una riparo. E’ una dura lotta, il ritmo dei remi che affondano nel mare diviene l’unica voce di bordo. Finalmente si giunge nel fiordo di Porto Pozzo, e il racconto di genti scomparse fra i flutti è l’argomento della serata. E’ un mare pericoloso quello di settentrione, e forse è proprio uno di questi racconti che suggerirà a Omero, il grande poeta greco, la stesura dell’Odissea e delle misteriose popolazioni che distrussero le navi di Ulisse e delle tempeste che divorarono i suoi marinai. La mattina il vento è calato, c’è il sole che spazza via gli incubi della notte e il viaggio può riprendere. Pieghiamo verso sud e da bordo, mentre si naviga nell’arcipelago, non lontano dall’attuale Arzachena, si notano le prime capanne di Olbia, un porto riparato come un lungo fiordo, dove riposano alcune navi da carico che attendono di completare l’imbarco delle merci. Una grande oneraria esce dal porto con le vele spiegate, è diretta verso l’altra sponda del Tirreno. Ora la navigazione si fa più semplice e lentamente, al riparo dai venti a raffica del nord-ovest, scendiamo verso Coclearia (San Teodoro) fino a Posada, nel cui territorio sorgono le prime capanne del villaggio di Feronia. In quel porto i marinai passeranno la notte, ben sapendo che il giorno successivo non avranno la possibilità di approdare perché la costa rocciosa si presenta alta e inaccessibile. All’alba si salpa verso sud, viaggiando al traverso delle foci del Cedrino, superando coste dal paesaggio mozzafiato, quelle del Golfo di Orosei. Sull’acqua nuotano misteriosi animali sacri alle ninfe del mare, che incuriosiscono e turbano i marinai. Ora le coste si fanno più basse, e tra gli alti scogli rossi si scorge Sulci (Tortolì), e più avanti Portus (Arbatax). Ancora una pausa notturna, lontano dalla riva malsana, dopo aver gettato l’ancora nei pressi di un isolotto frastagliato, non lontano da un monte sacro agli dei del luogo. Dal mare, nell’oscurità della notte, si vedono pulsare alcuni misteriosi fuochi alti sui monti. All’alba si salpa ancora, la rotta è verso Sarcapos, sulla foce del Saeprus Flumen (Flumendosa), poi doppiamo il capo ventoso di Carbonara tenendoci lontani dalle isole fino a entrare nuovamente nel golfo che ci vide partire otto giorni prima. Sopra un colle dopo il Capo Carbonara, scorre a destra il tempio dedicato alla Dea lunare protettrice dei naviganti, quella che i romani conosceranno come Giunone. Giungiamo a Carales, ventosa, poggiata sui colli e circondata da ampie spiagge e lagune. La nostra nave doppia il capo sacro alla dea Astarte mentre il comandante tiene la prua lontana dallo scoglio affiorante. Il rosso sole del tramonto illumina il porto, occorre sacrificare agli dei del mare, per questa volta benigni. Tutti sono scampati ai pericoli del mare, e a Carales arrivano notizie di pace e prosperità.
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