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Il pesce senza valore dell’antico egizio

Creato il 10 dicembre 2015 da Francosenia

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La sostanza del capitale (3 di 10)
- Il lavoro astratto come metafisica reale sociale ed il limite interno assoluto della valorizzazione -
di Robert Kurz

Prima parte: La qualità storico-sociale negativa dell'astrazione "lavoro".

*** L'Assoluto [Absolutheit] e la relatività nella Storia. Per la critica della riduzione fenomenologica della teoria sociale *** Il concetto filosofico di sostanza e la metafisica reale capitalista *** Il concetto negativo di sostanza del lavoro astratto nella critica dell'economia politica di Marx *** Il concetto positivo di lavoro astratto nell'ontologia del lavoro marxista *** Per la critica del concetto di lavoro in Moishe Postone *** Il lavoro astratto ed il valore come a priori sociale *** Che cosa è astratto e che cosa è reale nel lavoro astratto *** Il tempo storico concreto del capitalismo ***

*** Il concetto negativo di sostanza del lavoro astratto nella critica dell'economia politica di Marx  ***
E' un fatto osservato da lunga data che il marxismo del movimento operaio ha continuamente soffocato o relativizzato, ridotto e diluito il concetto della critica dell'economia politica di Marx, fino ad arrivare ad una "economia politica" del tutto positiva, sul terreno acriticamente presupposto della forma moderna del feticcio. E' per questo che nei libri di testo del mondo perduto del "socialismo reale" si è sempre parlato con la più grande serietà di una "economia politica del socialismo", invece di capire e sviluppare il socialismo come critica pratica dell'economia politica in quanto tale. Di conseguenza, nella comprensione del marxismo anche il concetto di Marx della sostanza del lavoro astratto ha finito inevitabilmente per essere rappresentato come del tutto positivo, come mera definizione di un fatto ontologico oggettivo, "determinato da leggi naturali" e non da superare.
Questo ragionamento tuttavia non corrisponde in alcun modo alla forma in cui Marx presenta il concetto di lavoro astratto, fin da pagina 4 del primo volume de "Il Capitale": " Ma, se astraiamo dal valore d'uso delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Eppure anche il prodotto del lavoro si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore d'uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che lo rendono valore d'uso. Non è più tavolo, per esempio, né casa, né filo né altra cosa utile. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate. E non è più nemmeno il prodotto del lavoro del falegname o del muratore o di qualsiasi altro lavoro produttivo determinato. Col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, e le diverse forme concrete che distinguono le differenti specie di lavori. Resta pertanto solo il carattere comune a tutti questi lavori; sono tutti ridotti allo stesso lavoro umano, lavoro umano astratto. Consideriamo ora il residuo dei prodotti del lavoro. Non è rimasto nulla di questi all'infuori di una medesima fantasmatica oggettività, una mera massa di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di lavoro umano senza riguardo alla forma del suo dispendio. Queste cose manifestano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza lavorativa umana, che in esse è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono considerate valori - valori di merce". (Karl Marx, Il Capitale. Vol.I)
Non si può non osservare che qui il concetto di lavoro astratto non costituisce un'arida definizione positivista, bensì l'inizio della critica concettuale di una realtà francamente negativa. Lo "astrarre dal valore d'uso", di modo che "tutte le (...) qualità sensibili scompaiano" al fine di ottenere una "oggettività fantasmatica", "un mero dispendio di lavoro umano" già significa una tendenza assolutamente distruttiva del mondo sensibile e sociale. Poiché qui si tratta del lato pratico, attivo, si tratta di un'astrazione reale sociale, e non di un'astrazione meramente linguistica, che esprime le cose esistenti nel pensiero, senza che con ciò attinga nella pratica al mondo fisico e sociale. L'astrazione "lavoro" rappresenta qui innanzitutto un riferimento immediato di azione, soprattutto come un apriori della riproduzione sociale con conseguenze imprevedibili.
Marx qui si avvicina ad una critica che egli stesso non ha mai portato fino in fondo. Egli sviluppa (contrariamente alla maggioranza dei marxisti) una critica radicale dell'astrazione reale contenuta nel concetto di lavoro moderno; ma, simultaneamente, rimane ostaggio dell'ontologia protestante ed illuminista del lavoro - così come ha scritto sulle proprie bandiere il movimento operaio - sorta nel medesimo contesto storico della sua teoria. Marx si è così trovato costretto a tentare di separare il principio suppostamente ontologico di "lavoro", l'astrazione così espressa, dall'astrazione reale specificamente capitalista; progetto questo che ha finito in gran misura per perdersi nei suoi seguaci, i quali si accontentarono di adattarsi al concetto di lavoro interamente nell'ontologizzazione trans-storica - con poche eccezioni, che in tal modo spiccano come in special modo riflessive, seppure non siano mai andate oltre la riproduzione dell'aporia di Marx, con il concetto di lavoro considerato come astrazione reale capitalista e allo stesso tempo come principio ontologico.
Marx formula apertamente la sua aporia nei "Grundrisse", da subito, nella sua introduzione, dove parla della definizione del concetto: "Il lavoro sembra una categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione del lavoro nella sua generalità come lavoro in generale — è molto antica. E tuttavia, considerato in questa semplicità dal punto di vista economico, «lavoro» è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. (...) Un enorme progresso lo compì Adam Smith,  rigettando ogni carattere determinato dell’attività produttrice di ricchezza e considerandola lavoro senz’altro: non lavoro manifatturiero, né commerciale, né agricolo, ma tanto l’uno quanto l’altro. Con l’astratta generalità dell’attività produttrice di ricchezza, noi abbiamo ora anche la generalità dell’oggetto definito come ricchezza, e cioè il prodotto in generale o, ancora una volta, lavoro in generale, ma come lavoro passato, oggettivato. (...) L’indifferenza verso un genere determinato di lavoro presuppone una totalità molto sviluppata di generi reali di lavoro, nessuno dei quali domini più sull’insieme. Così, le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo concreto, dove una sola caratteristica appare comune ad un gran numero, ad una totalità di elementi. Allora, esso cessa di poter essere pensato soltanto in una forma particolare. D’altra parte, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una totalità di lavori concreti. L’indifferenza verso il lavoro determinato corrisponde ad una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro ed in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, in quanto determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, la astrazione della categoria «lavoro», il «lavoro in generale», il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice, e che esprime una relazione antichissima ed è valida per tutte le forme di società, in questa astrazione si presenta tuttavia praticamente vera soltanto come categoria della società moderna. (...) L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide — proprio a causa della loro natura astratta — per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in  questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni." (Karl Marx, Grundrisse)
Questa riflessione sul concetto di lavoro come categoria sociale è aporetica sotto vari aspetti. Nel senso che, tanto l'astrazione quanto il suo contenuto sociale appaiono, da un lato, come positivi, come "progresso", come una "attività creatrice di ricchezza" generale, come sviluppo di una diversità; e, dall'altro lato, come negativa, come "indifferenza" relativa al contenuto. Alla stessa maniera, il "lavoro" appare, da un lato, come un'astrazione "razionale", come mera designazione generica di un "ricco sviluppo concreto" di attività; dall'altro lato, Marx non tarda a correggersi, richiamando l'attenzione sul fatto che questa corrispondenza non è "solo il risultato mentale di un'attività concreta", ma corrisponde ad una "forma di società" nella quale tale astrazione diventa reale e in tal modo definisce l'azione. Soprattutto, però, Marx da un lato si mantiene fedele alla concezione per cui l'astrazione "lavoro" è un'idea "antichissima" e "valida per tutte le epoche"; dall'altro lato, però, chiarisce simultaneamente che si tratta di "una categoria tanto moderna" quanto "le condizioni che producono tale semplice astrazione", di modo che questa categoria finisce per essere il "prodotto di determinate condizioni storiche", soprattutto di quelle moderne, e che possiede "piena validità soltanto all'interno di tali condizioni".
Quest'argomentazione aporetica può essere risolta soltanto se la categoria "lavoro" viene definita come astrazione reale, e perciò come categoria storica, moderna, capitalista e, per ciò stesso, l'ontologia del lavoro viene del tutto abbandonata. Se Marx designa disinvoltamente quest'astrazione (probabilmente nel senso di una mera astrazione nominale) come "antichissima", questa designazione ovviamente non si basa su nessuna ricerca storica. In realtà, in molte società della storia, fra le altre anche le cosiddette culture superiori come l'antico Egitto, neppure esisteva una categoria di attività generale ed astratta. Perfino nelle società dove sembrava esistere un simile concetto generico nominale (anche se non c'era nessuna astrazione reale), si trattava di aree di attività molto limitate, e mai di una generalità sociale di "attività in generale". Se qui nell'interpretazione moderna si parla sempre di "lavoro", questo è ingannevole, un anacronismo e fondamentalmente un errore di traduzione (cosa che del resto si applica anche ad altre categorie specificamente moderne ed associate alla relazione di feticcio della valorizzazione del valore, come la politica, o lo Stato, ecc.).
Nella misura in cui l'astrazione "lavoro" è stata adottata come concetto dalla società moderna a partire dall'area linguistica indo-europea, essa dev'essere oggetto di una completa ridefinizione; gli è che in queste lingue il "lavoro" designa sempre l'attività specifica degli schiavi, dei dipendenti, dei minori, ecc.; non si tratta, quindi, di un concetto generico mentale per diverse aree di attività, ma di un'astrazione sociale (ed in questa misura anche di un'astrazione reale, in questo senso specificamente premoderno), però, proprio per questo non si tratta di una generalità sociale, né di una categoria di sintesi sociale, come avviene nella modernità.
L'aporia di Marx rimane uguale a sé stessa anche nell'analisi de "Il Capitale", quando Marx fornisce le definizioni di "lavoro astratto" e di "lavoro concreto". A rigore, la definizione "lavoro astratto" rappresenta un pleonasmo logico (come, per esempio, "cavallo-bianco bianco"), dal momento che l'attributo è di già contenuto nello stesso concetto; gli è che, di fatto, il "lavoro" è già un'astrazione. All'inverso, il concetto "lavoro concreto" rappresenta una contraddizione in termini (come, per esempio, "cavallo-bianco nero"), giacché l'attributo è in contraddizione con il concetto; come astrazione (anche concettualmente, nascendo solo sul terreno di un'astrazione reale sociale) il "lavoro" non può essere di per sé concreto", nel senso di una attività determinata.
Si può dire che queste definizioni di Marx riflettono il paradosso reale della relazione del capitale e della sua socializzazione del valore, giacché quello che è in sé concreto, la diversità del mondo, viene di fatto ("realmente") ridotto ad un'astrazione, ed in questo modo la relazione fra il generale ed il particolare viene messa coi piedi per aria. Il generale non è più una manifestazione del particolare ma, al contrario, il particolare è ormai una manifestazione della generalità totalitaria; anche il concreto, così, non rappresenta già più la diversità strutturata del particolare, ma non "è" altro che la "espressione" della generalità realmente astratta, della "sostanza" universale.
Senza dubbio, Marx non ha piena coscienza di quello che veramente qui è da riflettere, considerato che si attiene ad un momento ontologico e trans-storico dell'astrazione "lavoro". In questo modo tenta di fondare tutto questo nel concetto di valore d'uso: "Come creatore dei valori d'uso, come lavoro utile, il lavoro è... una condizione esistenziale dell'Uomo, indipendente da tutte le forme della società, una necessità naturale eterna per mediare il metabolismo fra l'Uomo e la natura, ossia, la vita umana" (Il Capitale, vol. I). Il concetto di "utilità per determinate necessità", tuttavia, non è in alcun modo una categoria della sintesi sociale, e perciò non può essere semplicemente equiparata a quella del "valore d'uso", come fa sempre Marx. La categoria valore d'uso si riferisce soltanto ad un'utilità astratta (una definizione realmente paradossale) e in questa misura essa stessa è parte integrante dell'astrazione reale moderna; non è un concetto dal punto di vista delle necessità, ma un concetto di rappresentazione della mediazione della forma valore (il valore d'uso di una merce in quanto forma equivalente esprime soltanto il valore di scambio di un'altra merce).
Il valore d'uso come designazione ha senso soltanto nella mediazione con il valore di scambio, in quanto polarità della relazione di valore, e perciò non è affatto "una condizione esistenziale dell'Uomo, indipendente da tutte le forme della società". Nella misura in cui il "lavoro" stabilisce "il valore d'uso", non si tratta di una definizione ontologica-trans-storica per l'astrazione del valore, ma niente più che un modo specifico di come l'astrazione reale prende possesso dell'oggetto, che in sé non ha niente di astratto. Quello che Marx designa paradossalmente come "lavoro concreto" non costituisce per questo una "necessità naturale eterna"; al contrario, non è altro che il modo materiale specifico con cui il "lavoro astratto" si appropria della "materia" naturale o sociale. Una volta che questo è stato chiarito, possiamo continuare ad usare i concetti di Marx, così come sono, tuttavia con una comprensione cambiata.

Devo anticipare a questo punto un'argomentazione che soltanto più tardi verrà sviluppata più dettagliatamente. Riguarda il carattere materiale della sostanza del lavoro astratto, che com'è noto è stata formulata da Marx come "dispendio di nervi, muscoli e cervello", indipendentemente dal modo concreto di un tale dispendio, sia sotto forma di lavoro di falegnameria o di tessitura, ecc.. I rappresentanti di una determinata linea neomarxista di dibattito (oggi spesso di colorazione postmoderna) sono orgogliosi di parlare qui peggiorativamente di un falso "sostanzialismo" ovvero di un "naturalismo" fisiologico dello stesso Marx e dei marxisti tradizionali, dal momento che proprio per via di questa "naturalizzazione", il lavoro astratto viene trasformato in una realtà trans-storica ed ontologica, giacché gli esseri umano devono sempre spendere "nervi, muscoli e cervello". Per inciso, anche Moishe Postone aderisce a tale opinione, infelicemente (Moishe Postone, ivi, pag 224 ss.). Ora, è vero che il marxismo tradizionale ontologizza il lavoro astratto, come pretenderemo di dimostrare più in dettaglio nel prossimo capitolo. Nonostante questo, la critica del "sostanzialismo" che abbiamo finito di abbozzare parte da presupposti totalmente errati. Ossia, per essa si tratta assai meno di chiarire il concetto di sostanza e di lavoro, che del rifiuto di una teoria della crisi sostanziale, che argomenta per mezzo della diminuzione storica della sostanza del lavoro in quanto sostanza del valore del capitale (desustanzializzazione). In questo senso, il lavoro astratto viene visto come una relazione quantitativa, come concetto di sostanza in senso quantitativo. Gli è che, perché qualcosa possa essere aumentata o diminuita, questo qualcosa dev'essere sostanzialmente reale in senso materiale e di contenuti; una mera forma, come sostanza non può rappresentare una relazione quantitativa. Per questo la critica del carattere della sostanza materiale del lavoro astratto serve a rifiutare la teoria della crisi sostanziale, ed anche per nascondere l'esistenza di un limite interno assoluto del processo di valorizzazione; la crisi viene allora ridotta alla superficie del mercato - come "errore di regolazione" del meccanismo del mercato che potrebbe essere regolato attraverso mezzi politici - oppure scompare completamente dal dibattito teorico fondamentale.
Poiché questa argomentazione contro il "sostanzialismo" si inscrive innanzitutto nell'ambito della teoria della quantità e della crisi del lavoro astratto, essa viene trattata esaustivamente soltanto nella seconda parte del presente saggio. Qui bisogna fare un riferimento preliminare al concetto qualitativo negativo del lavoro astratto che in questo ha un ruolo. I neomarxisti anti-sostanzialisti apparentemente riflettono fino a regredire a retroguardia del marxismo tradizionale, una volta che sfugge loro qualcosa di essenziale, Gli è che Marx non parla di dispendio fisiologico di nervi, muscoli e cervello nel senso immediatamente naturalista o trans-storico. Poiché il dispendio fisiologico di energia umana, in termini puramente "naturali", non può essere separato dalla forma concreta di un tale dispendio. Ma, è proprio questo che avviene socialmente nell'astrazione del lavoro. E questo astrarre dalla forma concreta del dispendio non è né razionale né trans-storico. Se, per esempio, dicessimo ad un antico egizio che sta pescando, che non stava semplicemente catturando un pesce, ma che sta spendendo "nervi, muscoli e cervello" in senso astratto, egli avrebbe tutte le ragioni per dubitare della nostra sanità mentale. Una tale affermazione ha senso solo nel contesto dell'astrazione reale moderna.
Tuttavia, la sostanza astratta del lavoro non cessa di contenere un qualche contenuto materiale o "fisico" (poiché un dispendio di nervi, muscoli e cervello senza contenuto, semplicemente non è possibile), sebbene non si tratti di una sostanza naturale immediata, bensì di una sostanza sociale in quanto astrazione. Si tratta di uno dei lati della materializzazione dell'idealità della forma feticistica (l'altro lato sarebbe la stessa materia naturale modellata in maniera riduttiva), nella misura in cui, sotto il dettato di questa idealità di forma negativa, in un determinato riferimento sociale, si astrae, non solo concettualmente, ma anche praticamente, dalla forma concreta del dispendio (che naturalmente non smette di accadere), stabilendo come essenziale solo questo medesimo dispendio in quanto tale, indipendentemente dalla sua determinazione concreta.
Nell'astrazione come astrazione reale, rimane quindi come residuo un contenuto ben materiale, in particolare il dispendio di "energia umana in generale". Per il "soggetto automatico" del processo di valorizzazione non ha nessuna importanza se vengono prodotte pantaloni o bombe a mano; è essenziale solo che nell'atto avvengano processi di combustione fisica umana (dispendio di energia) che possano essere rappresentati come un quantum di valore; un procedimento in sé assolutamente assurdo. Tuttavia, questi processi di combustione avvengono realmente; quello che è assurdo è solo il fatto che vengano trattati e "rappresentati" indipendentemente dalla loro forma concreta, e di conseguenza indipendentemente dal loro obiettivo materiale e di contenuto; il che avviene perché l'obiettivo sociale è proprio questa "rappresentazione" feticista. La riduzione al processo di combustione fisica è un'astrazione sociale, ma non per questo è una mera cosa del pensiero (come, per esempio, un concetto generico nominale), ma si riferisce ad un momento ben reale, ed è anche per questo un'astrazione reale.
La "rappresentazione" è un processo essenziale di quello che Marx ha designato come feticismo della forma merce. Non si tratta solo del fatto che il quantum di energia umana spesa non può essere separato dalla forma concreta di questo dispendio stesso; non appena i prodotti si ritrovano prodotti, essa appartiene ormai al passato e non è più tangibile, e perciò evidentemente non è "contenuta" nei prodotti in senso naturale o fisico. La "rappresentazione" come processo fisico, in questa misura avviene soltanto nelle teste dei soggetti sociali così costituiti, in particolare come percezione e "trattamento" pratico feticizzato della sua stessa socialità. Anche così, tale "rappresentazione" si riferisce a qualcosa che di fatto non avviene solo nelle teste dei soggetti, come forma di percezione e di azione, ma che è una realtà fisica, ossia, processi di combustione passati avvenuti in corpi umani, dispendio di unità energetiche.
Poiché il quantum di energia consumata nel processo del suo dispendio non può essere realmente separato dalla forma, o determinazione concreta, di tale dispendio, e poiché, trattandosi di un dispendio definitivamente passato, che non può essere letteralmente "contenuto" negli oggetti, la forma sociale della rappresentazione è di fatto, sotto questo aspetto, irreale in senso duplice. Anche così, questo quantum di energia dev'essere speso realmente nel passato, di modo che, sotto l'altro aspetto, rappresenti una sostanza fisica reale (sebbene "rappresentata" in maniera paradossale). La forma di rappresentazione di questa sostanza reale, però, in sé no ha niente di fisico, essendo innanzitutto un'astrazione reale, un modo di percezione e di azione socialmente costituito, in cui le sostanze naturali ed i beni prodotti sono realmente trattati come se fossero oggetti fisici di pura rappresentazione dei processi di combustione passati nei corpi umani.
Il lavoro astratto è perciò un determinato stato di aggregazione dell'idealità della forma feticista moderna, che tuttavia non smette di riferirsi ad un quantum energetico di forza lavoro realmente spesa, ossia, ad un contenuto materiale quantificabile (non in relazione alla merce individuale, ma alla media sociale delle merci). Questo contenuto, tuttavia, in quanto astrazione è "fantasmatico", non solo in quanto risultato dell'oggettività del valore, ma già nel processo stesso del dispendio, ossia, in termini pratici, come definizione di una massa di dispendio di nervi, muscoli e cervello separata dalla sua forma materiale. Si procede a determinate trasformazioni di materiali naturali, sulla base di una determinazione essenzialmente aprioristica, nelle quali vengono spese quanta di energia umana astratta indipendentemente dalla forma concreta del suo dispendio - tale determinazione è sostanziale in un senso materiale, che non è un senso naturale, ma sociale, e che non è trans-storico, ma storicamente specifico della costituzione del feticcio moderno.

- Robert Kurz - pubblicato sulla rivista Exit!, 1/2004 – (3 di 10 – continua…) -

fonte: EXIT!


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