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Il peso della farfalla - Erri De Luca

Creato il 29 marzo 2011 da Alboino
Il peso della farfalla - Erri De Luca Chi conosce e ha frequentato Erri De Luca, sa della sua passione per la montagna, così come del luogo in cui abita e soprattutto del suo passato. Questi tre elementi seppur non visibili sono l’architrave de “Il peso della farfalla”, spinta propulsiva per raccontare di due solitudini che si incontrano. La passione per la montagna (Erri De Luca è un vero e proprio scalatore, a tal proposito ricordiamo “Sulla traccia di Nives”) è evidente nell’ambientazione del racconto: vette altissime in cui la natura è unica proprietaria del cosmo; la “terra” dove lo scrittore vive che è terra di silenzio (tra Roma e il Lago di Bracciano), terra di raccolto in cui il tempo si misura in foglie, “in rami che si fanno spazio in aria (…) Da qui gli anni sono alberi che spingono dal basso verso l’alto. Da qui il tempo ha radici di mimosa, di mandorlo, di pioppo, di noce, tiglio, leccio, rosmarino. Sono la famiglia che mi è cresciuta intorno. Loro e non i libri danno peso al vento” e anche in questo caso tutto è nelle pagine di questo racconto e infine il passato di Erri che lui stesso prova a far galleggiare fra le riga dello stesso racconto: “Per un tempo del secolo scorso la gioventù si dette una legge diversa da quella stabilita. Smise di imparare dagli adulti, abolì la pazienza. In montagna saliva cime nuove, in pianura si dava nomi di battaglia. Voleva essere primizia di tempi opposti, dichiarava falsa ogni moneta. Non aveva diritto all’amore, pochi di loro ebbero figli durante gli anni rivoluzionari. Mai più si è visto un altro accanimento a rovesciare il piatto, in una gioventù. Un piatto sottosopra contiene poco però ha la base più larga, sta piantato meglio”. E allora ci si chiede che cos’è questo libretto di non oltre 70 pagine, cosa vuol rappresentare nella vasta bibliografia dello scrittore napoletano. Credo che “Il peso della farfalla” rappresenti un omaggio dello scrittore alla montagna, un racconto orale (“sono storie raccontate da altri. Da due bracconieri e da un guardacaccia. Le notizie sui camosci le ho avute da loro. Siccome io vado a scalare alla fine si chiacchiera di quello: si chiacchiera di bestie, di uomini e di montagne”) tradotto nella consueta prosa asciutta, scarna, ruvida più del solito che è la cifra stilistica del napoletano. A questo punto una parentesi è d’obbligo poiché alcuni detrattori dello scrittore – in primis le pagine de “Il Giornale” (e chi se no!) all’uscita del libro montarono un “caso” di quasi-plagio adducendo una scopiazzatura (analogie le definì Luigi Mascheroni sulla pagine del giornale riprendendo quando scritto da Luca Rinaldi – critico letterario di fama mondiale sich! – che su giornalettismo.com titolava “Quel libro di De Luca che tanto somiglia a un’altra storia”) con un libello sconosciuto a firma di tale Luisa Mandrino dal titolo “La forza della natura” pubblicato da una immensa casa editrice Cda&Vivalda (lo confesso sono un lettore da oltre 100 titoli l’anno e purtroppo nella mia libreria non riesco a trovare uno che sia uno titolo di questa casa editrice) che racconta una storia vera, quella del cacciatore-alpinista Franco Miotto. Naturalmente Erri De Luca smentisce e ripetiamo ancora una volta le sue parole “Devo questo racconto all’ascolto di persone che raccontano storie. Andando in montagna mi capita di incontrare gente che vive in quei posti e racconta delle storie”. E tanto ci basta! Dicevamo di quello che è insito in questo racconto: l’amore per la montagna con il suo silenzio e i suoi rumori fatti di passi sui sassi, del suono dei ruscelli, del vento (altro elemento portante nella narrativa di De Luca) e degli animali. Un luogo in cui è ancora possibile essere soli e infatti in questo luogo lo scrittore cala due solitudini che si avviano al tramonto. Un bracconiere sconfitto dallo sguardo di un piccolo stambecco e il “re dei camosci” vecchio e ormai al trapasso definitivo. Due vite a margine che incontrandosi sprigionano scintille, un incontro-scontro che richiede secondo l’antico istinto della sopravvivenza la supremazia di uno sull’altro. Supremazia che alla fine non ci sarà destinati come sono entrambi a soccombere al tempo che passa. Il bracconiere è un uomo spigoloso e schivo (Erri De Luca?) che sceglie l’esilio volontario dell’altitudine “Una sola stanza, fuoco e acqua”, in cima ad un bosco, come contrappeso ad una “gioventù passata tra i rivoluzionari, fino allo sbando”. (Erri De Luca?) Nello scontro con il Re dei camosci è lui ad uscire perdente dal momento che il vecchio bracconiere può anche dimostrarsi abile scalatore, ma “resta incapace dell’intesa dei camosci con l’altezza. Loro ci vivono dentro, lui è un ladro di passaggio”, costretto a riconoscere la superiorità della bestia e conseguentemente consapevole della bassezza insita nella caccia che è agguato da lontano, per tramite di una pallottola. “Gli zoccoli del camoscio sono le quattro dita del violinista. Vanno alla cieca e non sbagliano millimetro. Schizzano su strapiombi, giocolieri in salita, acrobati in discesa, sono artisti da circo per la platea delle montagne. Gli zoccoli del camoscio appigliano l’aria. Il callo a cuscinetto fa da silenziatore quando vuole, se no l’unghia divisa in due è nacchera di flamenco. Gli zoccoli del camoscio sono quattro assi in tasca a un baro. Con loro la gravità è una variante al tema, non una legge”. Marina Cvetaeva

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