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Il peso della solitudine

Creato il 18 novembre 2012 da Scribacchina

Domenica triste e solitaria: sono senza il mio basso. Da ieri è in clinica.
Aggiungiamoci che quella che al telefono era una sciocchezza sembra sia diventata una pericolosa incognita.
Morale: aspetto una telefonata che deciderà la mia sorte.

Vabè, direte, è solo un basso: cambialo.
No. Non è solo un basso. E’ molto di più.
E’ un pezzo di me, del mio passato e del mio presente.
Ogni suo particolare ha una storia: quell’ammaccatura sul body; quelle sellette che non volevano abbassarsi quando tentavo di mettere l’action rasoterra; il RE che per accordarlo con precisione ti fa dannare.
Per non parlare della manopola del volume, che ogni tanto si svita e solo io sono in grado di risistemarla a mano nuda, senza chiave inglese.
Il suo aspetto, poi: è un basso nato per fare rock duro, starebbe bene in mano a un metalman; vederlo orgogliosamente riciclato in basso funk (con qualche magro tentativo di jazz/fusion) te lo fa diventare ancora più simpatico.
E’ un tipo alla mano, sempre sorridente, sempre pronto a mettersi in gioco (nei limiti delle sue possibilità, ovviamente).

Per farla breve, oggi l’umore è sotto le scarpe.
Neanche il solito concorso annuale per nuovi talenti jazz, ieri sera, è riuscito a risollevarmi il morale (sarà che di gran talenti, ma davvero grandi, non ce n’erano – escluso un duo di vocalist piuttosto bravi a destreggiarsi tra variazioni timbriche e beatboxing). Molto meglio l’anno scorso, serata di spessore; ricordo che quella stessa sera cadeva con mia somma gioia il zoppicante governo italiano: l’anniversario è stato proprio settimana scorsa. Detto tra noi, mi fa sorridere considerare come all’estero tra la gente del popolo si sia festeggiata la ricorrenza (notizie di prima mano).

Parlo di Berlusconi, ma in realtà penso ad altro: al mio piccolo e adorato basso, che ora è abbandonato in chissà quale buio stanzino, in attesa dell’intervento.
Un pensiero intollerabile.
Non posso pensare al peggio.

Forse il problema è mio: mi affeziono troppo, e quando c’è da mettere la parola «fine», senza se e senza ma, sento che tutto intorno a me crolla.

Chi può, tenga le dita incrociate.

Questo è il pezzo che con puntualità maniacale chiude i miei studi quotidiani.
Spero di tornare a suonarlo col mio piccolo basso frettato.


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