Il peso delle lobby straniere in USA: gli Emirati Arabi Uniti

Creato il 30 agosto 2014 da Danemblog @danemblog
(Pubblicato su Formiche)
Erano giorni che Tripoli veniva sorvolata da aerei non identificati durante la battaglia per la presa dell’aeroporto, poi due serie di bombardamenti misteriosi, senza che si sapesse l’autore (e, a dire il vero, senza ottenere i risultati sperati, dato che le milizie alla fine sono riuscite a conquistare lo scalo aereo). Tante congetture (gli uomini di Haftar, piloti “gheddafiani” su caccia egiziani, l’Algeria con dietro la Francia, gli USA in segreto) poi alla fine qualche giorno fa il New York Times ha fatto lo scoop e rivelato la verità: erano caccia degli Emirati Arabi Uniti decollati da basi messe a disposizione dall’Egitto vicine al confine con la Libia.
Implicazioni profonde per la regionalizzazione del conflitto libico (Egitto, UAE, e Arabia Saudita fanno parte di uno schieramento che si oppone alle milizie islamiste libiche, sponsorizzate invece dalla Fratellanza Musulmana e dal solito Qatar). Ma anche, stando ad una rivelazione accessoria – ma non secondaria – fatta dal NYTimes sulla base di fonti americane di alto livello, un’importante segnale per gli USA: Egitto e UAE avrebbero agito senza avvisare Washington. In un mondo come quello mediorientale dove spesso si finisce per andare a braccetto con vecchi nemici (vedere quello che sta succedendo con l’IS, con gli USA sullo stesso schieramento di Iran, Pkk e Siria), si rischia di perdere la giusta considerazione tra gli amici – Egitto e UAE sono storici alleati americani nell’area.
Gli Stati Uniti, con tutta la serie di satelliti puntati sia sul Mediterraneo in direzione Turchia-Bosforo (per la crisi ucraina), che più a sud verso il Golfo (per “osservare” Iraq e Siria), non possono non aver “visto” quello che stava accadendo; ma impegnati sul dossier “Califfato” forse hanno voluto lasciar correre – e preferito “sputtanare” gli alleati sui media.
Non un buon gioco per gli sforzi di relazione che gli Emirati Arabi stanno mettendo in piedi a Washington: con i 5 milioni l’anno per attività di lobbying e pubbliche relazioni, sono il paese che investe più in queste attività di tutto il Medio Oriente. Richard Mintz, CEO di The Harbour Group (agenzia di “diplomazia pubblica”) disse nel 2007 che la comprensione che gli americani avevano del mondo degli emiri, era molto limitata: per questo serviva che la sua società si impegnasse molto. C’era anche da cancellare i ricordi dell’11 settembre (due degli attentatori venivano proprio dalla federazione araba). Insieme alla società di Mintz, nello sforzo di trasformare gli Emirati Arabi nel polo di attività globale, stanno lavorando a suon di migliaia di dollari, anche DLA Piper (298 mila l’anno) e Akin Gump Strauss Hauer&Feld (902 mila).
In questo momento il principale piano di controversie riguarda le compagnie aeree: Etihad (di Abu Dhabi) e Emirates (di Dubai), sempre in tesa alle classifiche di Skytrax tra le migliori al mondo, sono accusate da diversi oppositori in Congresso (tra tutti i Rappresentati Patrick Meehan, repubblicano, e Peter DeFazio, democratico) di godere dell’occhio compiacente del governo, spesso a scapito delle compagnie americane. Adesso sul tavolo c’è la possibilità di creare una struttura di facilitazione per l’ingresso di cittadini e merci provenienti dalla federazione degli emiri negli Stati Uniti (preclearing), che dovrebbe essere costruita (a spese dei contribuenti americani) all’aeroporto internazionale di Abu Dhabi – e che, secondo Meehan e DeFazio, “renderebbe più facile gli ingressi negli USA dal Golfo Persico che da NY City”. Il punto è anche che nessun vettore statunitense vola da dagli UAE. Ma nonostante le opposizioni politiche (Meehan aveva tirato su 150 sponsor tra i rappresentati), il putiferio scatenato dalla Air Line Pilots Association and Airlines for America (la principale lobby delle compagnie aeree americane) e lo scetticismo della Homeland Security sui controlli arabi, il progetto in maggio è passato, con poche sostanziali modifiche.
Una vittoria per il lobbismo degli emiri, che tuttavia è concentrato non solo nel portare a casa “immediati” affari commerciali (il progetto di un accordo di libero scambio tra i due Paesi è in discussione dal 2004, anche se attualmente sta vivendo una fase di stallo), ma piuttosto mira a costruire negli Stati Uniti un’idea del paese lontana da miti e preconcetti. Harbour Group lo scorso anno ha organizzato diversi viaggi-studio (spesati) negli Emirati Arabi Uniti, in cui ha coinvolto il Center for American Progress, l’Atlantic Council e l’American Jewish Comitee. La società ha inoltre calcato molto sulla diffusione mediatica dei progetti sociali finanziati dagli UAE – esempio la costruzione di diversi campi da calcio di quartiere in varie cittadine americane, o il contributo di 4,5 milioni di dollari al fondo di soccorso per l’uragano Sandy che ha colpito il New Jersey.
E a supporto c’è anche l’Abu Dhabi Investment Authority, fondo sovrano che gestisce i proventi del petrolio negli Stati Uniti, che sta compiendo massicci investimenti in America.
Gli Emirati Arabi Uniti sono uno dei più importanti acquirenti al mondo di armi statunitensi. In aprile il segretario alla Difesa americana Chuck Hagel, ha chiuso di persona un accordo da 5 miliardi di dollari per la vendita di un’altra dozzina di F-16 agli UAE, e si vocifera che potrebbero essere interessati anche alla partecipazione al progetto F35 (o quanto meno all’acquisto dei velivoli). Gli Emirati godono anche di un trattamento di favore, e hanno ricevuto il permesso americano di acquistare i droni armati Predator – un accesso privilegiato da cui l’Arabia Saudita è ancora estromessa.
Ultimamente, con la situazione regionale infuocata e con i dialoghi con l’Iran (non proprio “amico” degli emiri), la federazione ha ricevuto rassicurazioni dall’Amministrazione Obama circa l’impegno americano nell’area. A conferma, la promessa che i fondi per i finanziamenti alle basi nel Golfo, arrivino dal bilancio ordinario e non passino sotto la voce temporanea dell’Overseas Contingency Operations.
Certo, le attuali iniziative sulla Libia potrebbero indurire i rapporti: Washington non ama certo essere messo “all’insaputa”, ma potrebbero pure rappresentare quell’aiuto, quello sforzo che l’America richiede agli alleati, per alleggerire le “proprie incombenze” su alcune questioni e concentrarsi su altre (per la Casa Bianca il teatro siro-iracheno è prioritario sulla situazione in Libia) – sforzo che, per dire, spesso l’America fatica a trovare tra i paesi europei.

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