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Il petrolio: lo sviluppo avvelenato

Creato il 02 marzo 2015 da Sviluppofelice @sviluppofelice

L’articolo 2-3-2015

di Roberto Meregalli

oca-petrolio
Il petrolio non è una commodity particolare, è la numero uno. Una società si sviluppa su una piattaforma energetica, ed il capitalismo moderno poggia sul petrolio. Nel 2014 il suo valore è crollato da 116,7 dollari al barile (giugno) a 58 (31 dic.). Nel 2015 la discesa non si è arrestata, sfondando la soglia dei 50 dollari.

Perché questo crollo? All’inizio tutti avevano dato la colpa all’Arabia Saudita, responsabile (a fine ottobre) di un abbassamento delle vendite in Nord America (ma non in Asia), con lo scopo di colpire i produttori statunitensi. Negli ultimi anni negli Stati Uniti si è verificata una vera rivoluzione in campo energetico grazie a tecniche estrattive nuove sia per estrarre petrolio che gas (shale gas e shale oil).[1] Nel corso del 2013 è apparso evidente un cambiamento strutturale nel mercato petrolifero: a giugno gli Stati Uniti avevano esportato 7,3 milioni di barili al giorno, ben 1,2 milioni in più rispetto al giugno 2012; un incremento pari all’intera offerta dell’Algeria e superiore a quella di Equador e Qatar.

Ma qual è il vero motivo del crollo? Il prezzo del petrolio è influenzato da molti fattori ma alla base permane l’interazione fra domanda ed offerta. I dati mostrano che l’offerta è cresciuta più della domanda. Oltretutto la domanda appare debole per mancanza di prospettive di un ritorno alla crescita. Nel 2015 gli economisti scommettono solo sulla crescita dell’economia americana; l’Eurozona è ferma, il Giappone pure e la Cina sembra un treno sempre più in fase di decelerazione.

Nel 2014 la domanda petrolifera è aumentata di un esiguo 0,7% toccando 91,15 milioni di barili al giorno (b/g; fonte OPEC). E’ la crescita più bassa da cinque anni. L’offerta è invece aumentata del 2%, un valore maggiore dell’aumento medio degli ultimi cinque anni, ed è salita a 93,2 milioni di b/g.

Chi ha aumentato la produzione? Gli storici paesi OPEC? Per niente, la loro produzione è rimasta ferma. L’83% dell’aumento produttivo globale è da imputare ad un solo paese: gli Stati Uniti. L’Arabia Saudita sta quindi banalmente affidando al libero mercato la fissazione del prezzo. Come dire: c’è troppo petrolio? Che scenda il prezzo, così aumenteranno i consumi e ad uscire fuori mercato saranno i produttori più costosi! In perfetta coerenza con le leggi dell’economia di mercato che abbiamo esportato nel mondo.

Quanto durerà il calo? Non si sa. Per fermare la caduta occorrerebbe un aumento della domanda superiore all’esiguo valore previsto dall’Agenzia Internazionale (+0,9 milioni di b/g). Oppure un drastico calo di offerta. Probabilmente più prosegue la discesa, più breve sarà il periodo low-cost. Infatti, nel caso di crollo sotto i 40 dollari, i tagli agli investimenti saranno rilevanti ed il ridimensionamento della capacità produttiva più rapido.

Quale morale? Nessuno è oggi in grado di influenzare il prezzo del petrolio, né l’Arabia né gli Stati Uniti, poiché l’industria petrolifera USA non è un’industria di stato. Lo sconquasso in atto ci dice che il mondo cambia più rapidamente di quanto gli esperti sappiano immaginare e non è sufficiente studiare il passato per prevedere il futuro. La fame di energia dell’Asia non è infinita e il loro sviluppo non sarà la fotocopia del nostro, perché energie rinnovabili ed efficienza sono ad un passo evolutivo ben diverso rispetto ai nostri tempi di sviluppo. Petrolio e gas di scisto non hanno inaugurato una nuova stagione dell’abbondanza, hanno solo reso economicamente accessibili risorse conosciute grazie al prezzo elevato del greggio e solo a tale prezzo avranno ancora chance.

Il legame sempre più stretto fra le economie del mondo fa sì che non esistano più solo effetti positivi per qualcuno e negativi per un altro (eccetto che per quei paesi che nel gioco non sono ancora integrati). Nessun paese è esente da danni. Essere sullo stesso pianeta e alimentarsi delle stesse risorse impone una politica globale di collaborazione, se si ha come obiettivo la sicurezza, la difesa del clima e una vita decente per tutti. La nuova bonanza dell’oro nero non durerà molto; difficilmente andrà oltre il 2015. Il riequilibrio di domanda ed offerta riporteranno i prezzo sui valori dei costi. Guardando oltre l’orizzonte, tali costi non potranno che aumentare; perché serve energia per estrarre petrolio, ne servirà sempre di più, e l’energia costa!

La strada più virtuosa che possiamo perseguire è quella di continuare a ridurre la quantità di petrolio che ci serve, per liberarci dai vincoli politici con i paesi produttori, per ridurre l’inquinamento e per proteggere il clima. Come ha ricordato uno studio recente pubblicato sulla rivista Nature[i]: se vogliamo preservare il clima, e con esso la produzione agricola e quindi la nostra stessa sopravvivenza, dovremo lasciare sotto terra, sotto il ghiaccio e sotto gli oceani una bella fetta di fossili per non rilasciare in atmosfera in pochi anni quello che madre natura ha concentrato nei fossili nel corso dei seco

[1] Queste tecniche estraggono il gas o il petrolio frantumando le rocce del sottosuolo in cui sono incapsulati (n.d r.)

[i] “The geographical distribution of fossil fuels unused when limiting global warming to 2 6C”, Christophe McGlade1 & Paul Ekins. University College London.


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