Prendete una strage. Una qualunque, purché con un bel numero di vittime innocenti. Più sono i corpi, nel fango, sul mare, o sotto le macerie, meglio è. Come la sciagura di Lampedusa di qualche giorno fa, o come l'ecatombe del Vajont, di cui proprio oggi, 9 ottobre 2013, ricorre il cinquantesimo anniversario. Dopodiché prestate bene orecchio a come i media, telegiornali su tutti, riportano la notizia delle vittime. Sempre e comunque verrà evidenziato il numero di donne e, soprattutto, bambini. Nel caso del disastro del Vajont, per dire, il numero di morti stimati fu 1918, di cui 487 bambini. E vedrete che i telegiornali non mancheranno mai di rimarcarlo. Perché?
Forse il valore della vita di un essere umano viene contabilizzato in base a quanti anni ha potenzialmente ancora davanti a sé? O non è invece vero che tutte le vite, di fronte a una tragedia di simili proporzioni, sono uguali? Se nel Vajont i bambini fossero stati solo 3, o se anche non ce ne fosse stato nessuno, la tragedia sarebbe stata meno tragica?
Invece i media non mancano mai di porre l'accento sul fatto che tra le vittime c'erano "donne e bambini", snocciolando i numeri, possibilmente, se impressionanti. Altrimenti restano sul vago, ma non rinunciano mai all'occasione di solleticare l'emozione dello spettatore, l'empatia, la compassione. Anche senza la necessità di spingerlo alla lacrima, beninteso. Anche perché spesso lo spettatore è comunque troppo distante per commuoversi.
Ma quel piccolo tic interiore causato dall'essere costretti (inutilmente) a porre l'attenzione al numero di bambini morti, crea nello spettatore una reazione emotiva che, in quanto tale, e per quanto piccola (non importa se collegata a un evento negativo), viene istintivamente percepita dallo spettatore come una cosa buona (illude lo spettatore alla partecipazione e alla non-indifferenza, quando in realtà allo spettatore non frega un accidente di quelle vittime) e crea così una connessione di solidarietà e fiducia con chi l'ha catalizzata, rinsaldando il legame dello spettatore con il media stesso, che è proprio lo scopo (ultimo) che il media vuole.