Sfogliando un dépliant turistico, recapitatomi a casa per pubblicizzare un evento, ho reperito diverse immagini riproduttive di tavole illustrate realizzate per la Domenica del Corriere da Achille Beltrame (1871-1945).
Il 2014 è l’anno nel quale sono iniziate le commemorazioni della prima guerra mondiale e questi disegni, guardati uno dopo l’altro, sembrano quasi istantanee scattate dal vero: gli atti eroici, le marce nella neve, le battaglie, i bombardamenti. Eppure, Beltrame dalla sua sedia di Milano non si spostò mai per recarsi sui luoghi che riproduceva, da grande professionista quale era, si documentava con articoli e fotografie e “inventava” scene così reali da restare nella storia. Tale fu il gradimento del pubblico, che la sua collaborazione con la testata giornalistica che le pubblicava durò dal 1899 al 1944 e durante la sua lunga carriera produsse ben 4662 tavole illustrate.
Non sono una esperta di storia della prima guerra mondiale, o una studiosa di cose militari, ma una semplice amante e appassionata delle vicende del nostro passato recente, così queste copertine e ciò che c’è dietro mi hanno incuriosito e affascinato. Potrei definire questo semplice tentativo un primo approccio per chi si interessa di storia, “quella che a scuola non si studia”. Le mie saranno pillole, piccole dissertazioni che accompagnano l’immagine riprodotta, o ancora pensieri in libertà da queste scaturiti, brevi storie in ricordo della Grande guerra, che poi, potrà mai una guerra dirsi veramente “grande”? Nessuna pretesa, quindi, di essere una nuova Mirella Serri o Brunella della Casa, ma semplicemente una donna che sente ancora vivo un legame ideale con quei suoi fratelli in armi, un secolo prima, per la sua stessa Patria.
Con questo spirito vi invito sì a leggere i “fatti” narrati, reperiti su vecchi libri o nel web su siti dedicati (specialmente per quanto riguarda dati tecnici e numeri), ma anche e soprattutto a prestare attenzione al “sentimento” con il quale li ho raccolti e riportati. Basti pensare alle vite di ciascuno di quelli che, rappresentati o no nelle illustrazioni di Beltrame, la guerra l’hanno vissuta veramente, combattendo al fronte, ma anche nelle retrovie e negli Ospedali, e restando al lavoro nei campi o nelle fabbriche. Un pensiero e un ricordo profondo rivolto a tutti: agli uomini in divisa, alle famiglie a casa, alle donne alle prese coi figli da crescere, che combatterono una dura battaglia per la sopravvivenza, alle madri che videro partire i figli giovanissimi, “i ragazzi del 99”, alle mogli e ai figli di soldati che non fecero mai ritorno. Un pensiero particolare rivolgo ai friulani, per i quali la Grande guerra fu veramente assurda, arruolati nell’esercito austriaco nel 1914, furono mandati a combattere sul fronte orientale e l’anno dopo si trovarono a fronteggiare l’Esercito italiano, per una crudele guerra fratricida.
E pensare che il 1914 si prospettava anno di innovazioni e benessere. Per darne solo alcuni riferimenti, con l’avvento del grammofono in campo scientifico e la nascita dell’espressionismo in campo culturale, il mondo sembrava proporsi rinnovato e pieno di energia positiva e invece venne la guerra, e si impose quella “cattiva idea” che divide e distrugge.
La prima guerra mondiale è stata uno dei conflitti più sanguinosi e cruenti dell’umanità, la sua indelebile traccia è rimasta nelle storie di combattenti ricostruite attraverso lettere dal fronte, diari e memorie di umili fanti o raffinati letterati come Gadda, Ungaretti o Junger, per citarne solo alcuni.
“C’è tuttavia qualcosa di particolare di cui si conserva il ricordo: lo si avverte immediatamente quando si attraversa il campo aperto. La guerra ha il suo odore inconfondibile, un sentore del tutto singolare. Lo si riconosce come quando, sognando, ritornano in mente altri sogni completamente dimenticati. La guerra è una di quegli ambiti in cui si riscoprono i suoni originari, come quello del vento che spira e volteggia al di sopra dei campi a folate sempre più sottili, sempre più oscure. Non c’è melodia più profonda.” (da Prima Linea, p. 101- Ernst Junger)
Gli Italiani, durante la grande guerra, conobbero se stessi nella vicinanza della trincea dove, per la prima volta nella nostra storia, si mischiarono dialetti, racconti popolari e musiche. Furono tanti i canti che risuonavano nelle prime linee, echi trasmessi dal cuore semplice di uomini che cercavano conforto proprio nelle nostalgiche note che ricordavano le loro case e le loro vite. Furono composti canti contrari alla guerra o patriottici come, quelli di Trilussa e di E.A.Mario, autore de “La Leggenda del Piave” che, non sembri retorica dirlo, fa ancora oggi fremere i nostri cuori. Voci diverse, echi che giungono a noi e non si spengono e hanno ispirato, anche in tempi recenti, poeti e cantanti come Fabrizio De Andrè nella notissima melodia “La Guerra di Piero”.
L’atteggiamento verso la guerra è oggetto di interesse a vari livelli, dall’arena internazionale, alla dimensione soggettiva e di coscienza. Non starò qui a dire delle ciniche differenziazioni che alcuni fanno tra la prima e la seconda guerra, giudicando sbrigativamente “onorevole” quella vinta nel 1918 e memoria da cancellare quella persa nel 1945.
È semplicemente soggettivo il rifiuto in toto della violenza, o è giusto ritenere che esista invece la necessità di imporre l’ordine anche con le armi? Io non posso e non voglio rispondere, mentre continuo a sfogliare le immagini che ho qui davanti, mi pare di sentire una voce che canta, accompagnata una antica melodia di fisarmonica, un suono pieno di ricordi, vecchio, eppure sempre nuovo.
Solo questo, modestamente proverò a fare, ricordare vite, uomini e gesta. E mentre ascolto quel canto, quella musica, scorgo la scalinata del Sacrario di Redipuglia, che si fa voce: oltre mille gradini o forse seicentocinquantamila come i caduti della Grande guerra, che, all’unisono pronunciano una sola parola, un grido, lanciato attraverso la storia, che ora e per sempre rimbomba come il rumore lontano dell’artiglieria… “PRESENTE”.
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L’aspetto più terribile e sanguinoso del primo conflitto mondiale fu rappresentato dalla guerra di trincea. Durante la Grande Guerra, infatti, migliaia di uomini persero la vita per conquistare e difendere pochi metri di terreno, esposti al freddo, alle intemperie, compiendo pericolose scalate, morendo colpiti non solo dalle pallottole, ma anche dalle malattie.
La trincea, un fossato scavato nel terreno al fine di offrire riparo dal fuoco nemico, è un antichissimo sistema difensivo utilizzato nelle guerre di posizione. Durante la prima guerra mondiale raggiunse il massimo utilizzo. I nostri militari furono costretti a starci dentro, con gli scarponi affondati nel fango, per quattro lunghissimi anni, in pessime condizioni:
- Vittime della sporcizia: la mancanza d’igiene trasformò le trincee in un ricovero per topi che si aggiravano per i camminamenti, giorno e notte, senza nessuna paura degli uomini, in cerca di qualche cosa da mangiare. I militari bevevano da antigieniche borracce di legno, col freddo, dormivano ammassati per non disperdere il calore e le tende per dormire (quando c’erano) erano inutilizzabili con la pioggia. Per non parlare dei problemi con il rancio che, preparato nelle retrovie, arrivava ai soldati che era immangiabile.
- Esposti alle intemperie climatiche, poiché d’estate il caldo, d’inverno la neve, il gelo, la pioggia erano insopportabili. Dotati di calzature completamente inadeguate per resistere al fango o al terreno pietroso di quelle montagne, le suole s’indurivano e si bucavano facilmente provocando seri problemi ai piedi dei soldati. Le ferite, così come i congelamenti, erano curati con lo stesso grasso che avrebbe dovuto servire per lucidare le calzature.
- Soggetti a uno stato di tensione continua che logorava i nervi, con il costante terrore di essere alla fine colpiti da un cecchino o dal ricevere l’ordine di prepararsi all’assalto. Esperienze che segnarono molti uomini per tutta la vita. L’ombra costante della morte sempre in agguato, l’incertezza continua di sentirsi “come d’autunno sugli alberi le foglie” scriveva Ungaretti, rendeva le sofferenze inaccettabili. Per di più un soldato aveva davanti a sé uno spettacolo agghiacciante: i cadaveri dei compagni rimanevano tra le opposte trincee, nella zona chiamata terra di nessuno, per giorni, talvolta per sempre.
A volte i soldati, per la paura delle mitragliatrici nemiche o per lo stress subito nei giorni di trincea quando arrivava l’ordine di andare all’attacco, non riuscivano, in preda al panico, a lasciare le loro postazioni, erano così accusati di diserzione e spesso fucilati sul posto.
Si trattò di un fenomeno diffuso che coinvolse centinaia (e forse migliaia) di uomini. Luigi Cadorna aveva, fin dall’inizio della guerra, dato disposizioni severissime per mantenere la disciplina. I soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee durante un assalto, ad esempio, potevano essere colpiti alle spalle dai plotoni di carabinieri.
I tribunali di guerra potevano essere istituiti in poche ore, e in altrettanto poco tempo la giustizia militare era in grado di emettere le sentenze che frequentemente erano la pena di morte tramite fucilazione. Inizialmente questo provvedimento fu preso solo in casi di estrema gravità, ma in seguito si estese anche a casi apparentemente meno gravi.
Sull’innocenza di quei poveri giovani fucilati, si potrebbero spendere volumi di parole in quanto la giustizia sommaria portò ad affrettate sentenze, tese più a essere di monito per i commilitoni che a punire veramente i colpevoli e i fatti, per volere delle gerarchie militari, passavano sotto silenzio.
Dopo i primi anni di guerra molti aspetti migliorarono come le dotazioni di vestiario che divennero più idonee, così come la quantità di cibo che, anche se di scarsa qualità, fu sempre abbondante, peggiorarono invece i trattamenti a volte disumani e le punizioni subite dai militari per il rispetto dell’autorità “a ogni costo” e fu instaurata una pesante censura, per non far ricevere notizie inadeguate ai combattenti e allo stesso tempo alle famiglie, così tutte le lettere venivano vagliate da un severo controllo.
L’episodio che segue può rendere l’idea di quanto fosse iniqua, la giustizia militare:
il 6 agosto 1917 a San Vito di Leguzzano, provincia di Vicenza avvenne uno dei citati episodi rimasti sconosciuti e poco ricordati.
Un cappellano annotò sul suo taccuino: “Corre voce che stanotte, dovendo partire l’8° reggimento di marcia accantonato a San Vito, i soldati si siano rifiutati; abbiano fatto le fucilate e si siano sbandati nei dintorni. È partito per San Vito il plotone dei carabinieri (…) e il nostro Tribunale di guerra…”. Il giorno dopo scrive: “(…) Il prof. Dalla Zanna è tornato stamani da S. Vito, prostrato fisicamente e moralmente. Il processo contro i primi responsabili dell’ammutinamento si è svolto sul campo dalle 7 di ieri mattina fino alle 10 di sera. Furono condannati alla fucilazione sette soldati e la sentenza fu pronunziata alla presenza di tutto il reggimento ed eseguita in un campo vicino al paese…”
Non si sono mai conosciuti i nomi dei sette soldati.
I soldati andavano puniti per dare l’esempio a tutta la truppa. “Colpirne uno per educarne cento” un triste motto che ci riporta a un’epoca ancora più recente. La grande guerra venne “governata” male da capi spesso spocchiosi e con mentalità retrograda, che li portò a sacrificare ostinatamente migliaia di giovani vite pur di conquistare un metro di terra o a ordinare di sparare alla schiena a chi non obbediva ciecamente.
Un’intera nottata
buttato vicino
ad un compagno
massacrato
con la bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore.
non sono mai stato
tanto attaccato alla vita
Veglia – Cima 4 – 23 dicembre 1915 – di Giuseppe Ungaretti