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Il “piccione” di Roy Andersson: quando il nichilismo è talmente radicale da liberarsi anche di se stesso

Creato il 11 marzo 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Questo di Roy Andersson è un film dove non accade niente. Non solo non c’è una storia, ma la storia stessa – come vedremo – viene messa fuori gioco. Ora non è facile raccontare un film dove non accade niente; per questo motivo non lo racconterò, ma cercherò di soffermarmi su alcuni particolari a mio giudizio dirimenti per chi voglia tentare di comprendere la posta in gioco in questo film.

Innanzitutto il titolo del film ci dice che l’occhio che guarda la realtà che viene rappresentata non è un occhio umano, ma è l’occhio di un piccione. Quindi sembra corretto inferire che le vicende sono narrate dall’impossibile punto di vista di un piccione. Agli occhi di un piccione come dovrebbero apparire gli uomini, i loro movimenti, le loro azioni, i loro discorsi? Insensati – così come ai nostri occhi appaiono insensati i movimenti delle formiche in un formicaio, la danza delle api in un alveare. Al piccione la ragione del nostro agitarsi resta sconosciuta, può essere solo descritta così come un entomologo descriverebbe i movimenti e i comportamenti di una colonia di insetti. Il regista, immaginandosi di guardare alla nostra esistenza dal punto di vista di un piccione, mette fuori gioco l’opposizione metafisica tra uomo e animale e si/ci mette nelle condizioni di diventar-animale (il riferimento naturalmente è a Gilles Deleuze) guadagnando così un punto di vista inedito e spiazzante sull’uomo: il punto di vista dell’animale che essendo privo di coscienza può gettare uno sguardo innocente sulle vicende umane. Significativa in questo senso è la scena in cui due giovani amanti amoreggiano sulla spiaggia con accanto un cane, il quale imperturbabile assiste alle effusioni d’amore che i due ragazzi si scambiano. Questa scena subito ci ricorda la celebre affermazione di Ferdinand Celine per il quale l’amore sarebbe l’infinito a portata di barboncino. É proprio per il fatto che la scena erotica si svolge sotto gli occhi del cane a mostrare tutta l’insensatezza dell’amore umanamente declinato. Lo sguardo di questo cane è lo stesso sguardo del piccione che dà il titolo al film, è uno sguardo innocente a tal punto da essere capace di togliere senso alle vicende umane.

La pellicola inizia descrivendo tre diversi incontri con la morte. In tutti e tre gli episodi la morte viene a togliere sensatezza alla esistenza. Il regista, però, non sottolinea in modo retorico la triste condizione umana, bensì sembra s-drammatizzare. La morte ‘capita’. Qui non c’è nessuna anticipazione estetica della morte da parte dell’uomo al fine di dare un senso alla sua esistenza attraverso un progetto. La morte sembra essere qualcosa di assolutamente gratuito che come tale non può essere ricompresa in una qualsivoglia economia di senso. Se per Pasolini (vedi: Empirismo eretico) la morte è ciò che viene a dare senso alla vita; per Andersson la morte non solo è insensata, ma toglie ogni senso all’esistenza. In questo e non solo in questo il nostro regista fa propria l’eredità di Samuel Beckett.

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La cosa che subito colpisce è la fissità dell’inquadratura, la fissità con cui la macchina da presa riprende la scena. La maggior parte dei brevi episodi si svolge in stanze. Sono stanze riprese sempre di sbieco come a volere denunciare – attraverso la semplice insistenza sul fatto – l’esistenza della quarta parete non più invisibile. Il fatto che le stanze siano riprese di sbieco ha come effetto non solo quello di richiamare l’attenzione dello spettatore sulla rappresentazione distogliendola dal rappresentato; ma ha anche l’effetto di ricomprendere gli spettatori nel quadro della rappresentazione stessa. Nulla sfugge alla chiusura della rappresentazione né il rappresentato, né gli spettatori della rappresentazione. Assistiamo ad una vera e propria chiusura della rappresentazione da cui è impossibile evadere. Allora le stanze, anche se non del tutto chiuse ermeticamente (spesso in ogni singola stanza si aprono porte che conducono ad altre stanze in un labirinto senza centro), diventano delle piccole bare oppure somigliano in maniera inquietante alle celle di una prigione, alle stanze di contenimento di una clinica psichiatrica, a piccole camere a gas. Il regista preso atto dell’impossibilità di evadere dalla gabbia della rappresentazione sembra aver deciso di trasformare la gabbia in un castello anche se in un castello senza principi o re dove i sudditi vivono senza tormenti, né attese o speranze in un limbo che non sa nulla né di inferno né di paradiso.

Abitanti di tale limbo sono i due protagonisti di questa storia strampalata raccontata dal regista. Sono due venditori, di cui uno è affetto da un lieve ritardo mentale, che intraprendono un viaggio che non li porterà da nessuna parte (il cammino è cominciato ed il viaggio è già finito – avrebbe detto il giovane Lukacs) al fine di vendere articoli di carnevale (denti da vampiro, sacchetti che emettono risate, la maschera di zio dentone). Per i loro dialoghi insensati e per le situazioni assurde in cui si trovano coinvolti ricordano i famosi Vladimiro ed Estragone di Waiting for Godot di Beckett. Un po’ tutti i personaggi e le situazioni del film di Andersson sono beckettiani; basti pensare all’ultima scena del film: ci sono diverse persone alla fermata che aspettano un autobus che non passerà mai. Il regista sceglie di chiudere il suo film parodiando la famosa piéce teatrale di Beckett: se Waiting for Godot metteva in scena la parodia dell’attesa, Andersson mette in scena la parodia della parodia dell’attesa, dell’attesa di un qualche senso. Questa parodia di secondo grado nell’affermare ironicamente il nonsenso di ogni attesa di senso suscita nello spettatore il sorriso come suscitano il sorriso questi due improbabili operatori di commercio.

A rompere questo contesto insensato, questo presente anonimo e questa quotidianità informe è l’irruzione sulla scena del presente della grande storia. Siamo in un bar di una delle tante periferie urbane quando all’improvviso arriva in città l’esercito di re Carlo XII di Svezia in partenza per la campagna di Russia. Questa è la sua prima apparizione nel film; la seconda sarà quella del ritorno del re sconfitto insieme ai reduci ed ai feriti della guerra. Ora questa stessa irruzione della storia nel presente è incapace di dare ad esso senso. Di solito si dice che senza il passato non si può capire il presente. La storia è stata considerata addirittura come il fondamento del senso ultimo dell’esistenza  almeno a partire da Hegel senza pensare ai vari storicismi fioriti nel secolo scorso. Ma oggi la storia non è più capace di dare senso alle vicende umane e non pochi si sono premurati di annunciarne la fine. Viviamo nell’epoca della fine delle grandi narrazioni (il riferimento è ovviamente al Lyotard de La Condizione Post-moderna); epoca nella quale viene meno la possibilità stessa di alzarsi a volo d’uccello (anche il piccione del film di Andersson non vola, ma è seduto su di un ramo!) sulle vicende umane per abbracciarle con lo sguardo e descriverle come un tutto organico. Oggi la storia – sembra dirci il regista – non è più un modo praticabile di dar senso alle nostre esistenze. A vedere i reduci ed i feriti di ritorno sconfitti dalla guerra gli avventori del bar piangono – sono in lutto per la perdita definitiva del senso. Eppure questo stesso pianto è descritto con humor dal regista. Nemmeno la storia, quindi, è capace di redimere, di ridare senso al presente. Per capire questa impossibilità ed irredimibilità bisogna tenere presente l’inequivocabile riferimento ad Auschwitz presente nel sogno di uno dei due operatori di commercio. Su tale riferimento tornerò fra breve; se qui lo chiamo in ballo è perché Auschwitz accadendo ha messo in crisi tutta la storia così come l’ha pensata l’Occidente ovvero come una storia di continuo progresso. Auschwitz è quel fatto storico che accadendo ha reso impossibile la storia. Auschwitz è la stessa impossibilità della storia, storia che non è più capace di dare senso all’esistenza. Gli avventori del bar piangono per la perdita definitiva di un qualche senso così sperando di elaborare il lutto per una tale perdita. Ma – sembra suggerirci il regista –  l’unico modo per farlo non è quello di un nostalgico ricordo di un senso che non è più; il regista sembra invece invitarci a perdere la perdita stessa….

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Ora veniamo all’episodio del sogno di uno dei due venditori. Qui la dimensione onirica non è rappresentata in maniera surreale come se nel sogno si potesse trovare un qualche scampo da una realtà grigia ed insensata. Non c’è nessuna trasfigurazione della realtà nel sogno. Il sogno è inquietante non solo per il suo contenuto, ma anche per il modo in cui viene rappresentato; infatti dal punto di vista della messa in scena tra l’episodio del sogno e gli altri episodi non c’è molta differenza. E proprio la continuità del sogno con la realtà descritta dal film a renderlo ancora più inquietante. Nel sogno degli schiavi negri vengono costretti da soldati ad entrare in una specie di gigantesco forno sulla superficie del quale si aprono delle trombe. Una volta che tutti gli schiavi sono entrati si appicca il fuoco alla base del forno che comincia a ruotare su se stesso come un enorme girarrosto, mentre dalle trombe esce una strana musica prodotta probabilmente dai gemiti degli schiavi che bollono cucinati vivi. Qui il riferimento non è tanto a sofisticate torture assire, né il regista ha intenzione più di tanto di denunciare attraverso la scena del sogno la violenza del dominio e dell’imperio colonialistico degli occidentali sui negri d’Africa. Qui, infatti, il riferimento è proprio ai forni crematori di Auschwitz. Questo sogno è un incubo come un incubo è la storia. Tornano in mente le parole di Joyce: la storia è quell’incubo da cui non ci siamo ancora svegliati. Dalla schiavitù dei negri allo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti – ecco il continuo progresso che avrebbe caratterizzato la storia d’Occidente ovvero la storia tout court. Tuttavia il regista non assume il tono livido e risentito che spesso caratterizza la denuncia della inumanità a cui è potuto arrivare l’uomo. Più che la denuncia della tragicità del male qui c’è la descrizione della banalità del male (il riferimento è naturalmente ad Hannah Arendt). Significativo da questo punto di vista è il ruolo del sognatore che è ricompreso nel suo sogno: egli fa da cameriere per quella nobiltà europea ormai vecchia e cadente che assiste al raccapricciante spettacolo. Anche il male diventa qualcosa di banale perché insensato. Anzi, voler dare un senso al male questa è la vera bestemmia! La conseguenza prima di questa consapevolezza del regista è la messa in questione della possibilità stessa dell’opera d’arte di descrivere l’orrore perché già solo descriverlo comporta dargli un senso. Non dimentichiamo che questo enorme bollitore di uomini emette suoni ascoltati con diletto dalla nobiltà che assiste indifferente al supplizio. Ora ad essere in questione non è più solo il rapporto tra orrore e storia, ma è anche il rapporto tra orrore e opera d’arte. Più d’uno nell’assistere a questa raccapricciante scena raccontata con indifferenza e con humor nero avrà sentito riecheggiare la domanda che non solo il filosofo Adorno si è posto alla fine della seconda guerra mondiale: Come fare arte dopo Auschwitz? Questa domanda in forma diversa riecheggia anche in questo film di Andersson. Infatti quando il venditore si risveglia dal sonno solleva una domanda destinata a restare senza risposta: “E’ giusto usare gli altri per procurarsi piacere?”. Come la storia non può perché non deve dare senso all’insensatezza di Auschwitz così l’opera d’arte non può perché non deve dare senso all’insensatezza di Auschwitz. Questo nonsenso è irredimibile sia dalla storia che dall’arte; il regista non fa altro che restituirci questo nonsenso in quanto nonsenso.

Questa scelta del regista diventa chiara ed inequivocabile specialmente in un episodio del film che da questo punto di vista è paradigmatico; sto facendo riferimento all’episodio sconcertante della scimmia seviziata in un laboratorio scientifico nell’indifferenza di una infermiera che, mentre la scimmia è torturata sotto i suoi occhi, parla del più e del meno con qualcuno al telefono. Qui il regista ci propone scandalosamente l’immagine di una scimmia crocifissa. Non si tratta, però, di una provocazione gratuita; anzi, l’immagine di questa scandalosa scimmia crocifissa ci rivela la cifra dell’operazione tentata in questo film dal regista. Andersson non vuole tanto dissacrare un simbolo religioso per scandalizzare i ben pensanti, ma vuole sottolineare portandola all’estremo l’inaccettabilità della croce stessa – inaccettabilità della croce a cui dopo duemila anni di cristianesimo ci siamo abituati; per cui nella croce non vediamo più un infame strumento di tortura, bensì un segno di speranza e salvezza. Il regista mostrandoci questa scimmia crocifissa ci chiede: Se per salvare l’umanità tutta un solo uomo dovesse essere sottoposto a torture indicibili fino a morire di una morte dolorosissima, voi accettereste di essere salvati? Questa domanda viene radicalizzata dal regista proprio per il fatto di mostrarci non la crocifissione di Cristo, ma quella di una scimmia. Mentre la crocefissione di Cristo è un nonsenso in qualche modo sensato, la crocifissione della scimmia è un nonsenso in qualche modo insensato esso stesso – una insensatezza irrecuperabile al senso.

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In questo raddoppiamento del nonsenso sta tutto il nichilismo e l’ironia del regista. Nel film, infatti, non c’è nessuna esistenzialistica denuncia del nonsenso dell’esistenza; non c’è nessuna tragedia. Il suo stesso nichilismo è preso in giro e dileggiato. Questo ironizzare su quella che potremmo chiamare una visione nichilistica dell’esistenza è ciò che contribuisce alla sconcertante leggerezza del film. Non c’è nessun dramma, ma una indifferente descrizione del nonsenso del tutto.  Anche lo stesso nonsenso non fa senso. Andersson non si limita solo a rappresentare il nonsenso dell’esistenza, ma ci mette sotto gli occhi il nonsenso stesso della rappresentazione dell’esistenza. Il regista mette in scena una parodia dell’insensatezza: è più ironico che nichilista. Anche il nonsenso stesso non fa senso. In questo Andersson supera la drammaticità dell’affermazione esistenzialistica: “Questo mondo non ha senso”. Infatti l’esistenzialista (o il nichilista ingenuo) così dicendo non si accorge che afferma l’insensatezza del tutto attraverso una proposizione sensata; per questo la sua stessa protesta è retorica ed insieme ingenua. In questo film, invece, il nonsenso non fa più problema, ma non per un difetto, bensì per un eccesso di critica. Sintomatico da questo punto di vista è il monologo insensato dell’ufficiale, bagnato di pioggia dentro la locanda; monologo intervallato da ripetuti “naturalmente” come a dire che dal regista il nonsenso non è messo in questione, bensì è semplicemente constatato. Il nonsenso non fa più problema, che l’esistenza sia insensata va da sé. I vari personaggi del film non cercano il senso dell’esistenza non perché la loro esistenza sia sensata, ma perché la stessa domanda sul senso è insensata. Qui ci troviamo di fronte ad una sovrana (cioè non risentita) indifferenza a quella che Heidegger avrebbe chiamato la questione dell’oblio dell’essere. Qui dovremmo parlare per l’esattezza di un oblio dell’oblio dell’essere. Il regista ironizza a tal punto sul suo stesso nichilismo così da approdare ad un nichilismo alla seconda potenza oppure fino al punto in cui il nichilismo è talmente radicale da liberarsi anche di se stesso.

Stefano Valente


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