E’ universalmente riconosciuto che la Germania sia un paradigma di efficienza, e questo la accomuna senza dubbio al Giappone con cui non per caso si è alleata nell’ultima Guerra. L’efficienza però è un criterio squisitamente tecnico, connesso alla produzione e alla filiera, non un criterio politico, in quanto non ha a che fare con la vita dei popoli ma solo con l’economia delle nazioni: le nazioni più ricche non sono anche le più felici o le più libere, questo perchè l’arte del buongoverno sottintende una scienza alchemica della ricchezza ben più complessa di quella canonica insegnata nelle facoltà di economia e durante l’apprendistato presso gli istituti di credito, che data la situazione storica attuale dovremmo più realisticamente ribattezzare “istituti di debito” a futura memoria delle generazioni. I greci e dietro di loro gli italiani stanno dolorosamente scontando gli amari frutti di un’epoca che seguendo il pifferaio germanico ha trasferito il criterio adattativo-darwiniano dalla razza alla finanza, per cui non i popoli geneticamente più deboli ma quelli economicamente più fragili sarebbero indegni di mantenere una propria identità nazionale e di conseguenza anche uno stile di vita congruo al proprio carattere storico e geografico. Da qui la tassazione selvaggia e indiscriminata, i tagli alla spesa pubblica, la retorica protestante della sobrietà, l’invettiva contro l’evasione fiscale come Grande Meretrice della Babilonia europea, l’esaltazione del lavoro come dimensione esistenziale e precaria da cui solo la morte ci potrà liberare. Eppure non ci voleva un genio a capire che nella conformazione delle nazioni a un unico regolo politico, pur considerate tutte le differenze e resistenze, si sarebbe determinata un’egemonia dell’economia più forte -e fin qui andrebbe anche bene- a discapito però delle più deboli, che mai nella loro storia recente avevano dovuto per sopravvivere confrontarsi con le parti in gioco in una gigantomachia camuffata da pacifica alleanza (UE).