Può una parola schiantarsi contro il muro delle lontananze che la genera, rialzarsi, spostarsi, tentare il colpo, il ritorno? Può una parola accompagnarsi alle metriche simboliche dei terremoti vitali, sociali, reali o sognati? E poi rifarli, ripeterli e costruirne di nuovi, diversi, esausti eppure pronti e reagire, a non scalfirsi nonostante le ferite, a intrappolarsi nelle fessure delle sue necessità come punto di nascita, fertile, di un percorso che cerca una verità e di quei suoi tentativi per trovarla si nutre. A partire da questo c’è “Poetico delirio”, prima raccolta poetica di Marco Vetrugno, pubblicata da Lupo Editore. Se esiste un discorso, un centro dal quale partire per parlare della poesia di Marco Vetrugno, non saprei, ma è nell’aggancio di una ricerca, di una rotta, che sento il cominciamento del tempo poetico che l’autore descrive, in quella rotta che traccia come “eversiva” e che Mauro Marino, nell’introdurre la raccolta, delinea come quella “dell’ultimo dei romantici”, propria di chi scrive dell’amore nudo e crudo, senza mai impacchettarlo nella retorica dei fiocchi e dei regali, ma affondandolo nell’immanenza della carne, nella generazione poetica della nascita, dell’abbraccio, del calore e dei percorsi di verità che si accingono a cercare tutto questo, senza precludersi né l’errore né il contrasto, ma anzi spezzando, urlando, testando i suoni, i malori, gli umori, i rantoli della vita, mentre scrive “inseguirò il sogno / tenderò fino allo spasmo la mia anima / chiuderò gli occhi / abbatterò ogni muro / annullerò tutto / fino a dimenticare il mio nome / il mio sesso / le mie certezze e le mie domande. / Voglio una libertà / che non sia solo di carta e inchiostro / che non sia resa artificiale / da ogni tipo di droga fumata / sniffata o leccata. / Ho cercato per anni la verità / ma mi è stato sempre detto che non esiste / che anche ci fosse donata / non potrebbe essere di nessuno. / Sapete che vi dico: / Fanculo / io oggi ne ho trovato un pezzo / l’ho pensato e scritto…/ voi fate altrettanto / se ne siete capaci”. E ritorna, l’autore, a percorrere strade, strade necessarie che del necessario si nutrono, s’amplificano nella corrispondenza dei gesti, dei corpi, del calore quotidiano dei rapporti umani. Ha scritto, ed ha amato per farlo, ed ha inciso su carne prima che su carta con paludi d’inchiostro. Ha dato forma alle sue parole col procedere dei corpi, nella vita.
Francesco Aprile
2012-12-19
da Il Paese Nuovo
poi in http://www.salentoinlinea.it
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