Steven Spielberg
Vi sono luci e ombre ne Il ponte delle spiedi Spielberg, e ciò non dipende dal suo modo di ripetereaccuratamente modellicinematografici del passato. Il limite non èquesto classicismo un po' programmatico – altrimenti bisognerebbe criticare altre opere ammirevoli quali Lontano dal Paradisodi Todd Haynes o (diversamente) Revolutionary Roaddi Sam Mendes o, inedito in Italia, lo splendido giapponese “hitchcockiano”Zero Focusdi Inudo Isshin. E' peraltro vero che in quei film si tratta di una riscrittura (postmoderna, per usare un aggettivo abusato) mentre quella di Spielberg - non citazione ma adesione – si potrebbedefinire serenità.Il punto è che Il ponte delle spie viola ilprincipio estetico fondamentale che il tutto è più della somma delle parti. Così il film si fa ricordare più per le singole sezioni, di valore diseguale, che per l'insieme. Infatti il film drammatizza una storia vera della Guerra Fredda - siamo nel 1957 - in tre parti. La prima - la migliore, un piccolo gioiello “hitchcockiano” di concentrazione e intensità - è un mini-film di spionaggio, narrato in maniera interamente oggettiva, ovvero non focalizzato, che racconta l'attività spionistica e l'arresto di Rudolf Abel (Mark Rylance). Secco, freddo (e ben servito in questo dalla tavolozza quasi stinta della bellissima fotografia di Janusz Kaminski), rende meravigliosamentel'elemento antieroico, triste e disincantato dellospionaggio/controspionaggio: quello vero, non James Bond; ricorda piuttosto i romanzi di Le Carré. Fino al grottesco “coeniano” della spia arrestata in mutande nella camera d'albergo, che chiede che gli lascino mettere la dentiera. Dico coeniano perché la sceneggiaturadi Matt Charmanè stata rivista dai fratelli Coen, e sembra giusto attribuire loro certe irruzioni di bizzarria nel film. La prima inquadraturaè una splendidamaterializzazione visiva dello spionaggio come condizione interiore: ilpittore dilettante e spia sovietica Abel sta dipingendo un autoritratto, e vediamo una triplicazione del suo viso, fra lui, lo specchio in cui si guarda e il suo volto riprodotto sulla tela. Cos'è una spia se non qualcuno che si è moltiplicato la vita creando una realtà fittizia? Peròl'umanistaSpielberg si pone sempre la domanda: dov'è l'uomo?E', questa parte,una descrizione oggettiva, procedural, che trova il suooggetto-simbolo nellafalsa moneta: un oggetto chevediamo sia in questa situazione sia in quella analogae parallela della spia americana Gary Powers che sorvola in aereo l'Unione Sovietica con l'U-2.Giacché il film sicostruisce su un montaggio alternato tanto materiale quanto ideale: “noi” e “loro”, impegnati a spiarsi a vicenda. Arrestato Abel, la sua difesa viene affidata all'avvocato Donovan (un meraviglioso Tom Hanks: la sua scena di presentazione è un altro gioiello). Direbbe il Woody Allen di Irrational Manche Donovan segue un'etica giuridica kantiana laddove tutti si aspettavano un'etica circostanziale. Sulla base che la perquisizione che l'ha incastrato era illegale (c'era il mandato di arresto ma non quello di perquisizione della stanza d'albergo), Donovan difende grintosamente Abel fino ad appellarsi alla Corte Suprema. Ciò gli costa una diffusa impopolarità.Il ponte delle spie si è così trasformatoin un courtroom drama - dove Tom Hanks si delizia a rifare Spencer Tracy, nella tradizione di una linea di rocciosi avvocati idealisti del cinema americano. Qui però il film mostra un limite: diventa didattico, un difetto non ignoto a Spielberg. Sia a livello della storia, amplificando le manifestazioni di ostilità rispetto alla realtà storica (gli spari alla finestra) o con la scena “telegrafata” del poliziotto che inveisce contro Donovan; sembra che Spielberg e gli sceneggiatori temessero che l'ostilità degli sguardi non fosseabbastanza chiara; sia (peggio) a livello del discorso: Spielberg è sempre stato un regista enfatico, prendere o lasciare, ma quiesagera in inquadrature dal basso e in sottolineature iper-marcate della musica di Thomas Newman. Recupera anche la fisiognomicamorale: l'agente della CIA Hoffmann porta la sua condanna scritta sul volto (non per niente ci impressioneràdi più col suo bel viso “aperto” un'altra figura negativa del film, l'avvocato Vogel, rappresentante della Germania Est).Convincente è comunque il quadro d'insieme, che descrive una società americana terrorizzata dalla prospettiva della guerra atomica (in una scena dei bambini assistono terrorizzati a un documentario sulla Bomba). Il film usa molto, nella prima parte, il falso raccordo; ed è un bellissimo tocco di montaggio il passaggio dall'“In piedi!” intimato nel processo quando entra la corte e la classe di bambini che in piedi giura fedeltà agli Stati Uniti. Il terzo movimento del film si ha quando a Donovan è richiesto, da Allen Dulles in persona, di trattare a Berlino Est, in forma non ufficiale, lo scambio tra Rudolf Abele Gary Powers, catturato dopo che il suo aereo è stato abbattuto. Con la complicazione che i tedeschi orientali hanno arrestato uno studente americano edhanno una propria “agenda”, non coincidente con quella del fratello maggiore russo; l'avvocato intende – contro la CIA che pensa solo a Powers - comprendere nello scambio entrambi. Bel tratto della sceneggiatura, ciò ha un legame sotterraneo con il discorso “olistico” sul tutto e le singole parti che Donovan faceva all'inizio circauna causa diassicurazioni. Qui Il ponte delle spiediventa un'avventura diplomatico/spionistica, ma soprattutto spionistica (diversa dalla prima perché soggettiva, focalizzata su Tom Hanks), sia perchéDonovan si muove senzaprotezione alcuna, nel rischio continuo dell'infiltrato in un mondo ostile, sia per la nebbia di ambiguità che circonda le trattative e dà loro un aspettoirreale. Il film rende bene il senso di spossatezzae paura in questo gioco d'ombre e di maschere nella cupaBerlino Est ancora piena di macerie – e diventa semprepiù teso man manoche questa trattativa perigliosa e accidentata prosegue, fino a una memorabile scena di scambio sul ponte. Dove i riflettori “sparati” verso la mdp riprendono (non èla prima volta nel film) il classico toposvisivospielberghiano delle luci dirette verso l'occhio dello spettatore (l'occhio essendo il cuore del cinema di Spielberg, sul che ritorneremo fra poco). Il ponte delle spie potrebbe finire su questa scena, e un epilogo piuttosto lungo potrebbe esser giudicato inutile - se non ci fosse nel finale un dettaglio che è un'altra pagina alta del film. Sullo sfondo della storia v'è la descrizione del Muro di Berlino in costruzione, in tutto il suo crudele orrore. In una scena, che Spielberg porge abilmente in modo quasi casuale, Donovan viaggiandodi notte sul metrò sopraelevato di Berlino Est vede una famiglia con bambina cercar di valicare il muro ed essere falciata dai mitra delle guardie comuniste. Alla fine del film, tornato a casa in America, sta viaggiando sulla sopraelevata e vede dei ragazzini che per gioco scavalcano la rete di recinzione di un giardino - e ricorda. Il film si chiude sulla sua espressione raggelata. In tutto il cinema di Spielberg (come in quello di Ridley Scott, per inciso) è un punto centralel'insostenibile peso della visione. Che può essere una visione di orrore come qui (e ve ne sono esempi classici nel ciclo di Indiana Jones) o anche di disperata bellezza, come in un'altissima pagina de L'impero del sole(il ragazzino inglese prigioniero di guerra che vede la cerimonia di arruolamento dei kamikaze giapponesi– e non può fare a meno di cantare un canto solenne per accompagnarla); ma è sempre una visione da cui l'occhio è colpito come da una lama.
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