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Il popolo di bronzo
In occasione della mostra allestita a Macomer, in Piazza Santa Croce e Casa Attene, fino al 19 maggio a cura della Fondazione Promotea, ho pensato di offrire ai lettori del quotidiano qualche riga di commento al lavoro di Angela.
Segnalo che questa sera, la trasmissione Geo & Geo, alle ore 17.30, sarà dedicata al lavoro della Demontis e in studio alla sede Rai di Roma sono stati portati tre costumi della mostra e altri oggetti (disegni, modelli spade, scudi, ecc). Consiglio vivamente la visione.
Potrebbe capitarvi, in giro per la Sardegna, di imbattervi in una mostra itinerante presso i musei nella quale un’artista sarda, Angela Demontis, ha riprodotto l’abbigliamento dei bronzetti nuragici, dando ai modelli proporzioni umane, così da offrire ai visitatori le meraviglie e i segreti rimasti per secoli nello scrigno delle nostre nonne. I personaggi prendono vita e nella ricomposizione della società antica, uomini e donne di diverso ceto e mestiere, si offrono in visione, costituendo uno spaccato di vita vissuta dell’età del Ferro, strizzando l’occhio ai leggendari guerrieri dell’epoca del Bronzo, quando i temibili spadaccini shardana costituivano la guardia reale del faraone Ramesse.
Lo studio dell’esercito di bronzo ci mostra come dovevano essere abbigliate le persone in epoca nuragica, come una sorta di scatti fotografici dell’epoca. Attraverso l’analisi delle incantevoli statuette esposte nei musei si acquisiscono informazioni sul gusto estetico e sull’articolazione della società.
Il costume doveva essere identificabile da lontano e caratterizzava un gruppo etnico, lo stato sociale o il mestiere praticato. In alcuni casi è possibile notare analogie in abiti, armi o accessori, che testimoniano uno scambio culturale fra popoli diversi. Già Lilliu, nel 1966 nella sua opera “Sculture della Sardegna Nuragica” evidenziava le diverse influenze culturali e le specificità delle tribù.
Le statuette femminili raffigurano donne coperte dalla testa ai piedi con lunghe tuniche e mantelli, mentre gli uomini vestono abiti corti e indossano spesso bandoliere che sostengono pugnaletti ad elsa gammata. Lo studio delle armi acquisisce importanza per capire il ruolo dei personaggi. Allo stesso modo, il cromatismo simbolico ancora persistente nelle produzioni artigianali della tradizione sarda e gli affreschi che rappresentano personaggi dell’Etruria (in particolare a Tarquinia) mostrano le strette relazioni fra antichi sardi ed etruschi.
Altro elemento caratteristico della mostra è costituito dai copricapo maschili e femminili, di varie fogge e colori, nonché le acconciature che fuoriescono e mostrano una cura nei dettagli che suggerisce una maestria tecnica difficilmente raggiungibile anche ai nostri giorni.
Fra le rappresentazioni a grandezza naturale confezionate dalla Demontis, sono rimasto affascinato da tre personaggi: l’arciere che presenta l’arco di tipo piatto come nelle statue in arenaria e la placca pettorale di protezione, il “guerriero di Uta” e, pur non essendo rappresentato fra i modelli della mostra, il “pugilatore di Dorgali” (visibile nell'immagine), ambedue rappresentati anche nella grande statuaria in pietra di Monte Prama, pur se il primo è di difficile interpretazione in quanto l’armatura è priva di spada (si notano solo i decori incisi nel corpo a evidenziare le protezioni) ma gli elementi che sono inequivocabilmente attribuibili all’oplita sono lo scudo piatto, come i 4 da assemblare trovati a Monte Prama, e l’elmo con la cresta fornito di corna brevi rivolte in avanti, anch’esso fra i reperti di Monte Prama.
Per questo guerriero la Demontis riporta un passo descritto da Omero nell’Iliade che parla dell’imbottitura dell’elmo di Ulisse: “Merione…in capo gli pose un casco fatto di cuoio…di fuori denti bianchi di verro…lo coprivano…in mezzo era aggiustato del feltro”. La lana di pecora compressa e infeltrita era dunque d’uso in antichità per il rivestimento interno e, in alcuni casi, all’esterno vi erano denti di cinghiale, come nella testina in avorio esposta al museo di Cagliari.
Il pugilatore-corridore, come si nota nell’immagine, era armato di maglio metallico, un’arma micidiale sul campo di battaglia, particolarmente utile nel corpo a corpo.
Fra gli altri personaggi, spicca un guerriero che utilizza uno strano bastone angolato, realizzato in legno di castagno. L’arma, chiamata amat, quando veniva lanciata compiva una traiettoria parabolica, ma non tornava indietro come invece fa il boomerang. Queste armi sono ritratte in affreschi tombali egizi risalenti al 1930 a.C. (tomba di Amenemath della XII dinastia) e sono state ritrovate nel corredo funerario di Tutankamon (XIII dinastia) datate al 1340 a.C. Data la sua angolatura, l’arma poteva essere utilizzata anche nel corpo a corpo come mazza, per aggirare le protezioni dell’avversario oppure colpirlo alle gambe per farlo cadere. Questa mazza è citata in alcuni testi antichi, come la Metamorfosi di Ovidio: “Insegue il bersaglio in una corsa che non è guidata dal caso, e a volte torna indietro, insanguinata, da sola”, e Virgilio nell’Eneide ne attribuisce l’uso a popolazioni germaniche: “sono abituati a lanciare la cateia, alla maniera dei Teutoni”.
La concia e la lavorazione delle pelli era una delle attività principali delle popolazioni nuragiche. Pelle, tendini, corna, zoccoli venivano trasformati in manufatti di grande utilità. A queste lavorazioni era collegata la preparazione di sostanze collanti, a partire dagli scarti di macellazione e di scuoiatura dell’animale. C’erano anche collanti di origine vegetale, soprattutto le resine delle conifere, usate pure miscelate alla cenere per diventare pece. I collanti erano indispensabili per il fissaggio delle lame e per l’assemblaggio di utensili.
La filatura, la tessitura e la colorazione dei tessuti erano svolti dalle donne. Per confezionare mantelli, gonne e corpetti si usavano tessuti di fibra vegetale come il lino, l’ortica e la ginestra odorosa. Si maceravano le fibre per eliminare le impurità, si lasciavano essiccare e poi si spazzolavano con un cardo selvatico (cardatura) molto pungente per eliminare i grovigli. Pronte per essere filate, le fibre venivano attorcigliate e, con l’ausilio del fuso, trasformate in un filo ininterrotto che si usava direttamente per la tessitura o veniva colorato con sostanze vegetali ricavate da corteccia, radici o foglie. Il colore veniva fissato con mordenti, ossia urina, tannini, argilla o allume di rocca (solfato di potassio e alluminio). Quindi veniva tinto macerandolo in acqua calda o fredda insieme alla pianta sminuzzata. Dopo accurata asciugatura il filato era pronto per essere lavorato al telaio.
Il lavoro della Demontis è arricchito di un capitolo dedicato al legno, una delle materie prime più utilizzate dai popoli della preistoria, per la facilità di reperimento e la versatilità della sua lavorazione, che forniva manufatti per ogni attività della vita quotidiana. Dalle navi alle coperture delle capanne nuragiche, dai carri ai gioghi per buoi e ai traini, dalle armi (archi e frecce) ai manici delle zappe, asce e contenitori di varia natura, dai mobili alle cassapanche, dai telai agli oggetti di uso domestico, come mestoli, pale da forno e taglieri. Allo stesso modo i manufatti ad intreccio mostrano sapienza nella scelta delle fibre vegetali e maestria nella lavorazione. Raccolte, scorticate, essiccate e tagliate a strisce, queste fibre venivano intrecciate per fabbricare cordame e cesteria, una tecnica rimasta immutata nel tempo e usata ancora oggi dai nostri artigiani.
Nell'immagine un disegno dell'artista Angela Demontis: Il cosiddetto pugilatore.
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