L’affermarsi del populismo presuppone un’acritica adesione di massa ad una visione politica, ad un leader e ad un programma non di rado ridotto a vacue parole d’ordine. E’ frutto di un isterismo collettivo alimentato ad arte che le circostanze possono rendere quasi onnipotente. Quello particolare che ha portato Mario Monti al governo è il risultato, oltre che delle decisive circostanze, di un lungo e mediocre lavorio ai fianchi che dura da anni, e somiglia ad un matrimonio combinato, un matrimonio che “s’aveva da fare”, cui la promessa sposa ha ceduto per sfinimento, in un tripudio generale e manierato, mirato ad incoraggiare la sventurata, nella speranza che col tempo la poverina arrivi perfino ad amare il vecchio bacucco. Insomma, sono tutti contenti, si sentono in dovere di attestarlo, molti senza sapere neanche il perché, ma nessuno ci crede. Che sia populismo lo conferma il fatto che dopo aver detto tutto il male possibile dei salvatori della patria, il nuovo Presidente del Consiglio venga dipinto esattamente come un salvatore della patria da coloro che di una “normalità” aliena da personalismi nella vita politica italiana, a fini naturalmente anti-berlusconiani, si erano fatti pretestuosamente patrocinatori. La contraddizione è palese, ed è per questo che l’opinione pubblica è stata affettuosamente bombardata da un surrogato dell’agognata “normalità”: l’immagine della compostezza del nuovo premier e della sua compagine governativa, che d’altro canto gli spropositi agiografici hanno dovuto porre a fondamento della talismanica “credibilità” del nuovo corso, ribadendo così che di populismo si tratta, anche se rovesciato rispetto ai termini convenzionali.
Il governo Monti è figlio dell’Antipolitica, per meglio dire di una forma particolare di antipolitica che ha assunto nitidi contorni durante il biennio dell’ultimo governo Prodi. Come si ricorderà l’Unione prodiana ebbe alle elezioni del 2006 l’avallo esplicito dei grandi giornali del nord. Elezioni che si prospettavano trionfali ma che videro invece Prodi vittorioso per un pugno di voti, e con molta fortuna. La risicata vittoria rese indispensabile l’appoggio dell’estrema sinistra. Anche per questo le aspettative sul suo governo andarono deluse. Il malumore serpeggiava nel paese. “L’antipolitica” incanalò questo malumore. I potentati che si erano esposti nell’appoggio a Prodi, una casta come le altre, corresponsabile non meno degli altri protagonisti dell’immobilismo del paese, ebbero paura che il fuoco dell’antipolitica li investisse. E così pianificarono di concentrarlo unicamente contro quella stessa classe politica con cui fornicavano da decenni appassionatamente. Ne scrivevo in questi termini nel 2007:
Se noi col termine antipolitica intendiamo forme distruttive – anche se non necessariamente becere, eclatanti o rumorose – di azione e lotta politica, allora al momento attuale ne possiamo contare tre: 1) L’ANTIPOLITICA DELLA CASTA ECONOMICA OVVERO IL PARTITO DEL CORRIERE DELLA SERA. A leggere oggi gli editoriali del Corriere della Sera ci si potrebbe chiedere come sia possibile che questo sia lo stesso giornale che appoggiò, appena un anno fa, la campagna elettorale di Prodi. La ragione è semplice. Il Corriere della Sera è espressione di poteri economici conservativi, i quali riconoscono se stessi come una specie di nobiltà industriale e finanziaria, nella quale al massimo si può essere cooptati. (…) con la restaurazione Montezemoliana alla testa di Confindustria, dopo il periodo di rottura di D’Amato, espressione della piccola e media impresa, la causa di questa Nobiltà Economica ha preso le sembianze, nel vasto apparato mediatico che essa controlla, della necessità di una nuova Classe Dirigente; concetto vaghissimo e in realtà senza senso, ma facile da contrabbandare in Italia, dove la figura dell’imprenditore dalla cultura imperante ufficiale non è mai una figura banale o normale, ma piuttosto disprezzabile, almeno fin tanto che non entri nel recinto dei salotti buoni, altra tipica espressione solo della nostra penisola, quando allora essa diventa spesso oggetto di adulazione. Quest’aristocrazia, che diventa casta quando siano venuti meno le ragioni storiche della sua esistenza, nel 2006 appoggiò Prodi perché aveva un nemico in comune: l’outsider Berlusconi, che era riuscito a dare una forma politica alle rivendicazioni del vasto popolo delle categorie economicamente più attive e meno protette del paese, irretendone le espressioni estremistiche e distruttive. Il calcolo era semplice: l’armata berlusconiana doveva essere letteralmente spazzata via, la vittoria talmente rotonda che il peso della sinistra comunista sarebbe risultato ininfluente alla sopravvivenza di una maggioranza di governo, sulla quale la Casta Economica avrebbe da parte sua esercitato, naturalmente, una sorta di patronato. Ma la situazione venutasi invece a creare dopo le elezioni del 2006 imponeva di arrivare allo stesso risultato per altre vie. La formazione di un governo tecnico di emergenza, che evitasse assolutamente nuove elezioni e l’esito nefasto di una vittoria della destra, e che fosse allo stesso tempo incubatrice di una nuova sinistra sulla quale imporre il proprio marchio; o, nel caso non si riuscisse ad evitare le elezioni, la disgregazione politica sia della sinistra che della destra; tutto questo abbisognava allora della delegittimazione e l’indebolimento dell’intera classe politica. Il libro LA CASTA costituisce uno dei successi meno naturali e più pianificati della storia dell’editoria. Sui privilegi dei politici un liberale all’antica o alla piemontese come l’onorevole Raffaele Costa ha gridato, e scritto, nel deserto per decenni senza cavare un ragno dal buco. Ma quando la partita per la moralizzazione della politica, per fini tutt’altro che innocenti, è stata giocata dagli stessi protagonisti del potere reale le porte del successo si sono aperte come per incanto.
Questo disegno si è concretizzato ora, dopo un lustro, ma ha dovuto giovarsi dell’eccezionalità della crisi economica senza precedenti che ha investito l’Occidente. Ed è solo una fragile mezza vittoria, perché ora bisognerà veramente fare sul serio. Tanto problematica che il giorno dopo l’insediamento del governo Monti alla retorica del “fare presto” è succeduta quella del manzoniano “adelante, con juicio”: “riformismo vero, senza strappi” è il titolo di un articolo dell’impavido Guido Gentili sul Sole24Ore. Ed inoltre deve già fare i conti con l’intuito politico di Berlusconi: chi temeva che l’ex-Presidente del Consiglio si emarginasse in un rancoroso isolamento si è sbagliato come chi sperava che egli subisse passivamente la nuova realtà. L’astuto Silvio ha promesso collaborazione piena col nuovo esecutivo, fin troppa. La nuova parola d’ordine fra i berlusconiani è questa: il programma di Monti è il nostro. Il nostro che precedeva il suo, ben s’intende. E non è poi una grande bugia. Proprio per niente, visto che adesso non solo i contenuti ma anche i ritmi cominciano pericolosamente a somigliarsi.
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