Magazine Diario personale
Sono giorni che ho questo post in testa. Sono giorni che cerco il tempo e le parole che meriterebbe ma mi è davvero difficile.
E' stata la settimana di quella foto. Quel bambino, poco più grande di Lei, poco più piccolo di Lui, naufragato e morto in mare, lì, solo, su quella spiaggia dannata. Quel bambino che ha fatto più rumore di altri, che è servito a smuovere anime infreddolite, che spero non verrà dimenticato come tutti quelli prima di lui.
Tutti quelli che ne hanno parlato, tutti quelli che l' hanno condivisa, tutti quelli che hanno scelto di non condividerla, tutti quelli che hanno detto muovete il culo a chi dovrebbe muoverlo, tutti quelli che sono rimasti emotivamente travolti. Io sono tutti questi.
Sono mesi, anzi anni, anzi da sempre, che la gente scappa. Ma quello che sta accadendo ora ha dimensioni immense.
Sono storie incredibili, così lontane dalla nostra quotidianità che sembrano avere il sapore di un romanzo, così dolorose che non abbiamo cuori allenati, così intense che immobilizzano.
Mi ritrovo impossibilitata a capire chi non vede o non vuole vedere. Chi non si rende conto che scappare non è mai una scelta libera. Chi sceglie a chi destinare la propria umanità, discriminando sempre.
Mi ritrovo arrabbiata con chi dovrebbe fare e non fa, con chi dice no a priori, con chi dice state a casa vostra, con chi non prova, solo per un attimo, ad immaginarsi lì, al posto loro, con chi si ritiene superiore solo perché più fortunato.
Mi ritrovo arrabbiata sopratutto con me stessa.
Io non so cosa fare.
Non so davvero cosa fare.
Sono immobile.
Mi arrabbio se mi guardo da fuori, come quando mi sono ritrovata a parlare di tutto questo ad una serata a bordo piscina sorseggiando un mojito. Perchè è facile così.
Mi arrabbio se mi ritrovo a pensare a quanto io sia davvero scossa da tutto quello che sta accadendo e da quanto io sia bloccata allo stesso tempo.
Mi arrabbio con mio figlio, perchè lo vedo buttato sul divano annoiato, lì a lamentarsi in una camera piena di libri e giochi. Mi arrabbio con mia figlia che lancia il cibo e non finisce quasi mai il latte del biberon. Con me stessa per non averne preparato di meno.
Mi arrabbio quando vedo le foto di quei bambini alla stazione di Budapest, quando ripenso a quel bambino, a quelli delle barche, a quelli dei campi profughi. A quelli che non si vedono.
E ho una specie di fitta, alla bocca dello stomaco, perchè tutto assume un sapore sbagliato.
Non ho spazio per ospitare, non ho tempo per dedicarmi, non ho forze di riserva per dimostrare. Non so nemmeno a cosa sarei davvero disposta a rinunciare per trovare quel tempo e quelle energie.
Posso portare giacche, scarpe e coperte qui vicino dove ne hanno accolti 300. Posso litigare con quelle mamme idiote che non li vorrebbero vedere al parchetto perché stonano con i loro figli biondi e perfetti.
Posso cercare di insegnare l'empatia ai miei figli. La tolleranza. Il rispetto. L'uguaglianza. Sempre e comunque. Essere d'esempio.
Piano piano.
Eppure non c'è tempo.
Quello che sta accadendo è di portata epocale ed è ora.
E io mi ritrovo spettatrice della mia impotenza.
La foto risale al 2006 durante il mio viaggio in Siria di cui avevo parlato qui. E' la via colonnata intorno al tempio di Baal Shamin a Palmyra.
Dovrei dire era, oggi non c'è più.