Ok, Bersani ha vinto.
Papà Bersani ha vinto le primarie del centrosinistra. Rassicurante, vicino al popolo, tranquillizzante. Quasi sopporifero: ha vinto.
Lo so, ci metterò un po’ a digerire l’ennesimo triste declino della sinistra, ma tant’è: il 21 dicembre finirà il mondo e forse avrò più speranza.
Non che Renzi abbia a mio avviso capacità da statista, ovvio: è giovane, è un rottamatore anche delle regole stesse, non ha esperienza sui macro sistemi, ma forse era proprio questa la sfida giusta. Forse era proprio lasciarsi andare al caso, alla dialettica tra generazioni, alla disincrostazione della calcarea flessibilità ex-comunista che scricchiola come una vecchia giuntura, che si ripete uguale a se stessa da decenni.
Forse era l’ora buona per chi non sa ancora fare politica, perché chi sa fare politica ha già fallito.
Invece ha vinto il vecchio schema, la vecchia (in fondo rassicurante?) logica partitica, ha vinto la modalità dialettica delle parole vicine alla gente per alzare un polverone di affabilità sociale che renda nebbioso tutto ciò che si cela dietro: una democrazia progressista d’immagine ma rigorosamente piramidale nella sostanza, la cui porta verso le sale di comando rimane invariabilmente serrata.
E lì, nell’ombra, siedono gli stessi, eterni come Andreotti, coloro che la politica la sanno fare ma è quella politica che a noi non piace più o forse non è mai piaciuta.
Benvenga allora il nuovo.
Vedo già il futuro:
Bersani premier, Giappone, intervento all’incontro degli industriali riuniti per le nuove collaborazioni e la voce rappresentante l’Italia che si alza con un “… wè! … siamo mica qui a pettinar le bambole…” mentre il traduttore simultaneo prova con un ” well… we are not here to comb the dolls…”
Potere della metafora …