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Era alto, secco e incavato come solo i russi tormentati sanno essere. Camminava ricurvo sotto il peso di una calvizie incipiente e di un paio di occhiali di tartaruga dalle lenti così spesse da fargli piegare anche il naso. Una giacchetta lisa per vestire una voce bassa, sempre sottotono, mentre parlava senza guardarti negli occhi. Eppure Volodia era l'ingegnere capo e gran factotum di un piccolo impero industriale e finanziario di uno delle tante regioni periferiche dell'URSS. Quando, accompagnandoci in visita, compariva in qualche reparto di una delle fabbriche su cui aveva potere assoluto, tutti gli operai fingevano di essere alacremente impegnati in qualche fittizio lavoro o se erano sorpresi lontani dalla loro postazione, vi accorrevano come tarantolati e timorosi di chissà quale terribile punizione. Le operaie si affaccendavano come api operose con gli occhi bassi e le rotondità in mostra e gli impiegati prendevano subito una mazzetta di fogli in mano per correre a sottoporgli un nuovo e irresolubile problema. Certo un potere enorme che avrebbero dovuto renderlo tronfio e pacioso come tutti i potenti veri, ben consci che comandare è meglio che fottere, cosa che da quelle parti tra l'altro, ha sempre teso a coincidere. Ma forse non solo laggiù. Invece, di tanto intanto arrivava il padrone vero, quello che nello smantellamento delle strutture sovietiche era diventato il proprietario effettivo del vapore.
E lì vedevi il potere reale, perché appena arrivava, il povero Volodia si ingobbiva immediatamente, abbassava le orecchie come quei cagnolini che l'hanno appena fatta sul tappeto e non sanno più dove nascondersi. Lo trattava davvero come uno straccio; con fare burbanzoso e sprezzante si faceva mettere al corrente delle novità, lo cazziava adeguatamente in ogni caso, evidentemente perché questa veniva considerata una giusta prassi, poi emanava una serie di ordini inappellabili e se ne andava portandoci con sé e lasciando il povero Volodia al suo destino di servo. In realtà poi lo copriva di denaro e privilegi, quasi a compensarlo di questa sua funzione di scarico dell'ira naturale del potente e lui accettava di buon grado questo stato di cose che gli garantiva comunque una posizione ed un benessere materiale di assoluto rilievo. Lo voleva sempre con lui, un po' perché gli era indispensabile, un po' per poterlo bastonare di tanto in tanto, una specie di scarica tensione. Lo accompagnò anche nel giro turistico che gli avevamo preparato nella sua visita in Italia e ricordo ancora con grande imbarazzo la lavata di capo che gli diede perché si era presentato con un ritardo di cinque minuti alla colazione del mattino.
Lui seduto al tavolo che sorbiva il cappuccino, inondando di contumelie il povero Volodia, in piedi con la testa china di fianco al tavolo, che con la testa pareva dire, sì, sono colpevole, devo essere punito duramente, pronto ad una autocritica completa, mentre tutti gli altri ospiti dell'albergo giravano la testa dall'altra parte, turbati facendo finta di non vedere. Poi un'ora dopo, forse rendendosi conto di avere ecceduto, ecco che da Brioni gli faceva scegliere un abito di suo gusto e da Bulgari gli prendeva un profumo da 500.000 lire da portare alla moglie. -Se lo merita, è bravissimo - mi diceva prendendomi sottobraccio e Volodia acchiappava il pacchetto strizzandomi l'occhio con un sorriso triste. A tavola mangiava con la ferocia di chi ha conosciuto la fame e adesso che finalmente è arrivata l'abbondanza, bisogna fare il pieno che non si sa mai. Così era contento quando ci portava a mangiare gli shashliky sul bordo del fiume, in qualcuno dei piccoli locali che la privatisazija cominciava a far sorgere qua e là. Quando invece ci invitò a casa sua, una villetta nella periferia di quella cittadina lontana, simbolo del suo successo lavorativo, pareva moderatamente soddisfatto di mostraci quella sua agiatezza raggiunta che lo metteva su un piano diverso dai suoi vicini e che in cuor suo giustificavano di certo la rinuncia a qualche grado di dignità e che forse trovava consolazione nella esagerata quantità di vodka che riusciva a trangugiare, reggendola in un modo assolutamente anomalo.
Solo gli occhi gli diventavano più lucidi e le parole uscivano con un po' di fatica. Anche il tono della voce si abbassava un po'. Ci presentò il figlio adolescente, forse la ragione unica dei suoi sacrifici per cui sognava un futuro lontano da lì, magari a Mosca, forse addirittura dipendente del nuovo McDonald che era stato appena aperto e di cui si favoleggiava. Uno del paese ce l'aveva fatta e quando tornava a casa, tutti gli si facevano incontro per farsi raccontare le meraviglie del progresso e le nuove opportunità e così anche Volodia sognava, perché sognare non costa nulla. Però quella sera, quando a bottiglie svuotate, volle scendere nel giardino coperto di neve, sempre con la stessa giacchetta nonostante i 20°C sotto zero e con il Kalashnikov in mano, sempre meglio averne uno in casa in quelle marche periferiche che non si sa mai, scaricò in cielo un intero caricatore in segno di gioia o di sfogo o di vendetta, il suo sguardo vuoto era più triste del solito e il grido di orgoglio strozzato dall'alcool gli si spense in gola mentre rientravamo, infreddoliti e stanchi.
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Un destino segnato.
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