Io, artista in via di fallimento, giuro di non provare alcun’invidia per i miracolati dei mass-media. Non trovo nulla di ingiusto nel loro successo e non gli nego a priori il riconoscimento del talento. Ma che non mi vengano a pesare il loro supposto valore artistico con le copie vendute di libri e di cd. Bach, il pilastro della musica occidentale, iniziò ad avere consenso di pubblico solo 80 anni dopo la sua morte, grazie alla riproposizione che Mendelssohn fece della Passione secondo Matteo. Ai suoi tempi, gli veniva preferito di gran lunga dagli appassionati George Telemann, oggi sconosciuto fuori dalla cerchia dei cultori, se non per essere stato, il suo Adagio da concerto in Re maggiore, clonato da De Andrè in Canzone dell’amore perduto. Che dire di Van Gogh, suicidatosi non solo per il disagio psichico, ma per non riuscire a sostenersi con la sua pittura, costretto, alla soglia dei quarant’anni, a dipendere economicamente dalla generosità del poco facoltoso fratello Theo. Appena qualche decennio dopo la sua morte, gli sarebbe bastato un solo quadro per garantirgli un’esistenza agiata. E la lista di chi ha vissuto nella semioscurità, per poi rilucere post mortem sempiternamente, potrebbe andare avanti all’infinito.
Il successo tra i contemporanei non è per niente indicativo del valore artistico di un prodotto. L’arte, come la cultura, si deve affermare nel tempo, deve tramandare di generazione in generazione la conoscenza, essere testimonianza viva e vera di un mondo perduto. Quando riesce a comunicare a distanza di tempo, l’arte è autentica. Il resto, tutto ciò che non riesce ad andare oltre a un orizzonte generazionale, rimane nel recinto dell’intrattenimento, di qualcosa che viene fatta per la soddisfazione dell’ego, non per trascenderlo. Non c’è nulla di sbagliato in questo e chi vuole ha tutti i diritti di chiamarla arte; e chi non vuole, ha tutti i diritti di chiamarlo surrogato di arte, me compreso. Ma non è una questione di puzza al naso: quando vedo o ascolto un prodotto che si vorrebbe artistico infarcito di cliché, di luoghi comuni, di piacionerie, di pathos ridondante, non posso far altro che sbadigliare, a prescindere dal fatto che possa riconoscere agli autori abilità e talento.
Non posso che rivolgere un invito a tutti quelli che, come me, si ritrovano con le fauci spalancate dalla noia di fronte a queste belle confezioni, studiate a tavolino e sostenute dalle corazzate del marketing: non ci polemizzate, ignorateli, siate postumi, che i posteri non sapranno mai chi sono stati, questi miracolati dei mass-media.
Il presente è sempre stato il regno dei mediocri. Il nostro dramma è che questi sono i tempi dell’eterno presente.