C’è un partito che fluttua, cambia casacca e bandiera ma è pervicace nelle sue convinzioni e nell’ideologia che lo muove. Passa dalla Lega al Movimento 5 stelle, si colloca saldamente nell’area dell’astensionismo, strizza l’occhio ai forconi, a dimostrazione che a forza di dare spallate alla democrazia, si sono rotti gli argini della “politica” ma soprattutto della civiltà e fuoriescono, legittimati e irruenti, tutti i veleni anche i più vergognosi.
Può succedere che in una pacifica sera di Natale, davanti a una bella tavola imbandita, in una casa calda e bene illuminata, nella città che è stata il più riuscito laboratorio dell’accoglienza e della mescolanza di lingue, arti, usi, cucine, religioni, commerci, gente ben pasciuta, mentre gusta un curry indiano, sgranocchia frutta secca comprata nel pingue banco del mercato tenuto da cingalesi, o assapora mango thai, discetti della minaccia delle nuove invasioni barbariche, compianga giovani espropriati della possibilità di un lavoro da stranieri ingordi e senza scrupoli, con una vocazione a delinquere, vittimisti e famelici.
Parlo di una città antica, in una delle regioni che vanta il primato del volontariato, delle attività no profit, e che, chiamata in causa, sciorina dati sulla riuscita del suo modello di integrazione, come se fosse un successo aver sostituito i precari d’un tempo, per lo più donne, con precari ancora più mobili, non garantiti e “disorganizzati”, un terzo mondo interno, disposta a salari inferiori, sicurezza ridotta, mansioni faticose, rappresentanze inesistenti.
Mentre è un successo straordinario quello conseguito da forze al governo di regioni e che dopo aver occupato i governi nazionali hanno occupato le coscienze, estraendo e autorizzando i sentimenti più arcaici e cupi, il malanimo più accidioso e infame, l’indole alla sopraffazione che si accompagna all’ignoranza.
E’ un successo propagandistico sbandierare i numeri dell’ignominia carceraria, in un Paese dove l’emarginazione coatta dei senza speranza diventa una ineluttabile condanna a delinquere, dove il solo fatto di non essere invisibili, di essere senza diritti diventa reato. E lo è altrettanto pararsi dietro a una ragionevolezza, quella del respingimento per motivi umanitari, proprio come certe missioni di guerra, del rifiuto “per non dare false speranze”, della cacciata preventiva in attesa di fulgidi accordi commerciali e di cooperazione, oggi più che mai “pelosi” quando affidiamo la gestione dei Cie a professionisti dell’infamia. O scegliamo di comminare detenzioni illimitate perché non abbiamo i mezzi e la capacità di rimpatriare, quando – peggio – creiamo la più crudele e aberrante confusione di status, tra immigrati, profughi e rifugiati come se scappare dalla fame non fosse una condizione disperata e meritevole dio accoglienza e rispetto.
Ed è ancor più un successo la rimozione di quello che siamo stati e che probabilmente saremo, gente sradicata in cerca di fatica, l’oblio di quello che abbiamo subito e di quello che abbiamo commesso, nell’esaltante convinzione di una nostra diversità, di popolo laborioso, generoso e gentile. Che dopo il cenone va a messa, adotta a distanza, manda il sms per aiutare vittime purché se ne stiano a casa loro, o, se arrivano qui, siano schiavi muti e invisibili. Che tanto se non siamo capaci di difendere i nostri di diritti, è equo che li neghiamo anche a loro.