Sul piano politico, il Governo di unità nazionale guidato dalla diarchia Ghani-Abdullah ha concretizzato nella sostanza quanto da mesi già annunciato; lo ha fatto offrendo ai taliban parte del potere dello stato, in quello che possiamo definire un formale processo di power-sharing (si rimanda all’Osservatorio Strategico 10/2014). Benché i taliban non abbiano accettato – nessun si sarebbe aspettato il contrario – questo fatto pone i riflettori sulle grandi difficoltà di governo e, in particolare, sul mantenimento di equilibri politici precari e sotto la minaccia dalle spinte competitive dei due principali gruppi politici che fanno capo a Ghani, da un lato, e ad Abdullah, dall’altro.
I soggetti indicati da Ghani quali auspicabili collaboratori erano il mullah Zaeef (ex ambasciatore dei taliban in Pakistabn), Wakil Muttawakil (ex ministro degli Esteri dell’epoca talebana) e, infine, Ghairat Baheer, parente di Gulbuddin Hekmatyar, capo del secondo principale gruppo di opposizione armata afghano (l’Hezb-e-Islami), movimento in competizione-collaborazione con i taliban. Nel concreto, la spartizione del potere avrebbe previsto l’assegnazione del ministero degli Affari Rurali, il ministero dell’Haji e degli Affari Religiosi e il ministero dei Confini; ai ministeri si sarebbero sommate le nomine di soggetti indicati dai taliban per i governi provinciali di Nimruz, Kandahar e Helmand. In particolare, la nomina dei governatori di queste province sarebbe andata a formalizzare uno stato di fatto, poiché i taliban già detengono il potere nella maggior parte di tali aree; una soluzione che, a ragion veduta, avrebbe potuto indurre a una possibile riduzione delle conflittualità a livello locale.
Come noto, la ragione del rifiuto da parte dei taliban – almeno sul piano formale – deriverebbe dalla firma dell’accordo di sicurezza bilaterale tra l’attuale governo e la Nato; accordo che autorizza le forze di sicurezza internazionali (prevalentemente statunitensi) a rimanere in Afghanistan sino al 2024.
Sfumata l’opzione del power-sharing con i taliban, Ghani e Abdullah hanno così provveduto – dopo tre mesi di attesa – alla nomina del nuovo governo della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Abdul Salaam Rahimi, capo dello staff del presidente Ghani, il 12 gennaio ha annunciato la lista dei venticinque candidati ministri, unitamente alla nomina del direttore dell’intelligence afghana e del vertice della banca centrale.
Salahuddin Rabbani, già a capo dell’Alto consiglio per la pace (High Peace Council) è stato designato quale ministro degli esteri, Sher Mohammad Karimi, attuale capo di stato maggiore delle forze armate, è stato nominato ministro della Difesa mentre l’ex generale Noor al-Haq Ulomi è destinato a subentrare al ministero dell’Interno; l’attuale capo dell’intelligence nazionale, Rahmatullah Nabil è stato confermato nel suo incarico.
Tra i venticinque candidati – la cui nomina formale spetta al parlamento – tre sono le donne; a queste sono stati assegnati i ministeri dell’Informazione e della Cultura, quello degli Affari Femminili e quello dell’Istruzione superiore.
Ma, in prima battuta, il parlamento afghano non ha confermato l’investitura di sette dei venticinque nominativi proposti dal presidente Ghani poiché, come previsto dalla costituzione afghana, in possesso di doppia cittadinanza. Tra questi Noor al-Haq Ulomi (ministero dell’Interno) e Salahuddin Rabbani (ministero degli Esteri). Si rimane in attesa di una soluzione che prevederà, con buona probabilità, la rinuncia della doppia cittadinanza da parte degli esclusi.
L’ISIS combatte (anche) in Afghanistan
Sul piano della sicurezza, alla già drammatica e precaria situazione, si è sommato un fattore dinamizzante che rappresenta un’ulteriore fonte di preoccupazione. Come previsto nell’Osservatorio Strategico 9/2014 di novembre, l’attività di reclutamento dell’ISIS (Stato islamico dell'Iraq e di al-Sham, o del Levante) si è imposta anche in Asia meridionale e, nello specifico, in Afghanistan.
I più recenti sviluppi sono stati caratterizzati da una significativa comparsa di militanti e combattenti dell’ISIS nella provincia di Helmand – altre fonti confermerebbero la presenza di militanti sotto la bandiera dello Stato islamico e di attività di propaganda anche nelle aree centrali del paese e nella provincia di Logar.
Fenomeno endogeno oppure esogeno? Le informazioni disponibili inducono a descriverlo come di natura prevalentemente autoctona ma dai forti e preoccupanti legami con l’area mediorientale. Se da un lato, alla guida del primo nucleo combattente dell’IS su suolo afghano ci sarebbe il mullah Rauf Khadim – mujaheddin di epoca sovietica e poi comandante dei taliban –, dall’altro lato è da considerarsi significativo il ruolo giocato dal messaggio “globale” dell’ISIS.
In primis, si rende opportuna una riflessione circa i trascorsi relativamente recenti del mullah Rauf Khadim che, al pari del califfo Abu Bakr al Baghdadi – leader dell’ISIS –, è un ex-detenuto speciale del carcere extraterritoriale statunitense di Guantanamo-“Gitmo”. Rauf Khadim, consegnato nel 2007 alle autorità afghane, riuscì a fuggire nel 2009 e a riunirsi con il movimento dei taliban unitamente a un altro prigioniero, il mullah Abdullah Zakir; quest’ultimo, nel 2010 avrebbe preso parte attiva, con il ruolo di “comandante”, al surge dei taliban nel sud del paese.
Al contrario, il rientro di Khadim tra i ranghi del principale movimento insurrezionale non gli avrebbe permesso di appropriarsi del ruolo di leadership a cui avrebbe ambito; questa le ragione che potrebbe averlo indotto al radicale cambio di schieramento in favore dell’ISIS (osteggiato da al-Qa’ida e dai taliban). Inoltre, recenti report confermerebbero la presenza di altri ex-detenuti di Guantanamo passati tra le fila dello Stato islamico, sia in Afghanistan sia in Pakistan.
Questo cambio di schieramento potrebbe essere letto come effetto di una lotta intestina al movimento dei taliban per la conquista del potere e conseguente tentativo dei gruppi marginalizzati di riconquistare spazio di manovra e capacità di operare sul terreno. E il cambio di bandiera, da bianca – Emirato islamico – a nera – Stato islamico –, potrebbe essere più l’effetto di un efficace capacità comunicativa del brand “ISIS” ulita a ragioni di opportunità individuale che non un cambio di approccio ideologico tout court dei gruppi afghani.
Analisi, valutazioni, previsioni
La presenza dell’ISIS nell’Afghanistan sostenuto dalla Nato, e più in generale in Asia meridionale, è ora un dato di fatto, sebbene al momento limitato nei numeri e nella capacità operativa, ma non per questo non degno di attenzione; se è possibile valutare come improbabile un rapporto interattivo tra ISIS e movimento taliban, è però vero che la capacità attrattiva dello Stato islamico è riuscita a coinvolgere le nuove generazioni dell’arco geografico che va dal Marocco all’India, ai paesi occidentali (dove è in crescita il numero di “aderenti” immigrati di seconda/terza generazione, ma anche convertiti, prevalentemente uomini, e un numero crescente di giovani donne). Le dinamiche dell’Afghanistan sono molto differenti da quelle mediorientali, ma non per questo la società afghana è impermeabile ai fattori di influenza esterna – così come ha ben dimostrato al-Qa’ida nei passati decenni.
Un ulteriore spinta verso una nuova fase di guerra civile?È probabile che nel breve-medio periodo si possa aprire uno scenario di crescente conflittualità tra i gruppi di opposizione armata in Afghanistan; conflittualità locali/regionali che andrebbero così a inserirsi nel più ampio contesto di conflittualità globale contemporanea che vede schierati su fronti contrapposti al-Qa’ida e l’ISIS. Una dinamica che, nel breve periodo, potrebbe portare, sul piano globale, a un’escalation di “violenza spettacolare” finalizzata all’attenzione e all’amplificazione mass-mediatica – come dimostrerebbero gli attacchi di Parigi del 7-9 gennaio e le più o meno correlate attività jihadiste in Belgio – e, sul piano locale-regionale, a dinamiche competitive in grado di coinvolgere le cosiddette componenti “moderate” spingendole ad assumere un ruolo attivo nelle conflittualità locali – anche al fine di non essere sopraffatte.
Al nascente governo, una volta approvato dal parlamento, spetterà dunque, da un lato, affrontare la questione sicurezza e, dall’altro, rendere concrete le promesse elettorali della doppia leadership afghana, in particolare quelle sul piano economico e sociale, così come spetterà l’avvio dell’Afghanistan verso un processo di stabilizzazione che comporterà pesanti ma necessarie rinunce – anche sul piano dei diritti – poiché se i taliban non hanno accettato di entrare a far parte del Governo di unità nazionale, è verosimile che continueranno lo scontro su un campo di battaglia che (per loro) è sempre più favorevole. Uno scontro che, sul “campo di battaglia”, sarò oggetto di una significativa recrudescenza del conflitto alimentata dalla competizione tra “storici” gruppi di opposizione armata e i “newcomer” del jihad – come lo Stato Islamico.
Inoltre, ancora una volta si impone il fattore “tempo” che i gruppi di opposizione armata afghani hanno saputo sfruttare con raffinata capacità, insieme alla disponibilità a interloquire con qualunque soggetto disposto a concedere qualcosa pur di porre fine alla guerra e avviare il paese verso un processo di stabilizzazione, qualunque esso sia.
Lo ha capito bene la Cina che, pur non avendo impegnato il proprio Strumento militare su suolo afghano, è impegnata in colloqui con rappresentanti del movimento taliban; una Cina, soggetto forte e determinato, intenzionato a ridurre le fonti di preoccupazione legate all’accesso alle risorse energetiche del sottosuolo afghano come al contenimento delle spinte fondamentaliste che dal Medio Oriente potrebbero accendere mai sopite velleità autonomistiche alimentate da un emergente fondamentalismo nelle aree dello Xinjang/Turkestan orientale (con esplicito riferimento, ancora una volta, all’ISIS). articolo pubblicato su Osservatorio Strategico 1/2015