Il prestigio dell'economia reale: "deriva-ta".

Creato il 23 maggio 2014 da Lostilelibero
Il nostro supereroe, non legittimato dalle urne, ma comunque investito della fiducia, almeno a voler prestare ascolto ai sondaggi, della maggioranza degli italiani, non fa mancare la sua personale rassicurazione: “l’Italia deve tenere i conti in ordine perché lo chiede la nostra dignità verso i nostri figli”.
Se si può capire, benché appellandosi ad un energico sforzo di fantasia, il tentativo istituzionale di acquietare la pressione dei mercati sull’Italia – peraltro ingiustificata -, non è invece comprensibile il concetto di fondo a cui la dichiarazione del Primo ministro sembrerebbe alludere. E non lo è per almeno due ragioni sostanziali. Se da un lato è pur vero che su ogni italiano pesano circa 30.000 euro di debito pubblico, dall’altra è quantomeno ambiguo il rapporto tra creditore e debitore. Da un paio di anni a questa parte, infatti, volendo seguire i dogmatici dati forniti dagli addetti ai lavori, una cifra vicina al 70% dell’intero debito pubblico sarebbe nelle mani degli italiani stessi. I cittadini italiani in qualità di cittadini sono quindi creditori dello Stato, mentre in quanto Stato sono debitori di loro stessi. O meglio: io, in quanto singolo, avanzerei una cifra pari al 70% dell’intero debito pubblico da quello Stato italiano di cui faccio parte (o meglio, che contribuisco a formare) ma sono anche, se il concetto di democrazia liberale possiede ancora un senso compiuto, lo Stato stesso. E quindi creditore di me stesso. La questione, pur nella sua lineare banalità, non è solo un mero sillogismo retorico, un rompicapo logico buono a dilettare qualche arguzia che vede i numeri solo come astratta logica contraria ad ogni principio di realtà. La problematica, che a qualcuno potrebbe pure sembrare la riedizione della questione sugli universali di evocazione medievale, è invece concreta. La schizofrenia del rapporto ambiguo creditore/debitore, dimostra, in tal senso, un’altra volta l’assoluta mancanza di senso dell’economia finanziaria. D’altronde, quando tutto deve ridursi alla traduzione in una formula, non è bene, per la buona riuscita dell’operazione “analitica”, complicare quelle stesse formule con la realtà tangibile. La logica non vuol essere tormentata da questioni che la mettano in questione. L’economia quindi come propedeutica all’ovvio, che tuttavia vorrebbe imprimere il proprio sigillo alla realtà per con-prenderla. Per dirla con Musil: “i razionalisti sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò s’impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema”. Che questa demenziale economia sia del resto completamente slacciata da quel reale che “logici” del calibro di Einstein e Heisenberg hanno dovuto riconsegnare alla relatività e al divenire, ce lo dice anche la seconda questione che andrebbe fatta ripetere a Renzi e a tutti ”renzie” di turno sino alla nausea. Un altro rebus insolubile per chi vuole far tornare i conti, quando questi ultimi poggiano su errori macroscopici di fondo, e su principi intangibili che vengono poi assurti al rango di realtà solo per far quadrare, in malafede, il cerchio. Com’è possibile, infatti, “far tornare i conti”, se la massa di derivati circolante è pari a più di 10 volte il pil mondiale? Se io produco solo un decimo (altre stime parlano di 11, 14, 16 volte il pil, ma si sa, siamo nel regno incantato dell’insondabile) della “ricchezza” globale, vien da sé che per “far tornare quei conti” ho una sola soluzione percorribile: agevolare proprio la grande massa di quei capitali finanziari che non esistono, a scapito della produzione che si fa “con le mani” – ormai inadeguata a produrre ricchezza -. Renzi e gli economistoni, senza saperlo, ci stanno implicitamente suggerendo di potenziare l’enorme meccanismo di spazzatura virtuale per uscire dalla crisi che quello stesso moloch finanziario ha creato. Nell’apoteosi dell’isola che non c’è, anche Peter Pan si atteggia da statista.

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