Magazine Cultura
Il primo Ferro in Sardegna
di Giovanni Ugas
da Atti I.I.P.P.
Nell’ultimo trentennio si è assistito a scoperte straordinarie che hanno portato preziosa linfa alla conoscenza del I Ferro in Sardegna, ma la comprensione e la restituzione dei processi culturali di questo periodo risentono non poco della profonda carenza di dati sui siti funerari, dell’assenza di un mirato programma di ricerca e, infine, del fatto che le pubblicazioni degli scavi spesso risultano limitate a notizie preliminari e a informazioni decontestualizzate. A ragione di ciò, occorrono ancora tanti passi per definire l’esatta composizione del quadro d’insieme e delle singole facies archeologiche. A ciò vanno aggiunte le incertezze sull’adozione delle cronologie calibrate scaturite dalle analisi dendrocronologiche rilevate in insediamenti palafitticoli svizzeri (Sperber 1987); da queste consegue un
consistente rialzamento cronologico delle tappe del Bronzo finale e del I Ferro accolto con favore da diversi studiosi italiani (Guidi e Whitehouse 1996) e tuttavia non si può non condividere le perplessità manifestate da L. Morris (1996, p. 59, s) e da G. Bartoloni (2009, p. 28, s) per quanto attiene in specie le fasi più recenti del I Ferro, già ancorate ai dati della letteratura antica.
1.1. I Ferro: nuragico finale, o post nuragico, o sardo?
Talora gli studiosi sardi si chiedono se il primo Ferro rientri o non all’interno della civiltà nuragica, dando risposte diverse. La questione non investe solo aspetti terminologici ma anche, e soprattutto, contenutistici. Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, G. Lilliu (1988, pp. 417-481) attribuisce decisamente il I Ferro alla civiltà nuragica, considerata la IV fase e definita anche «La stagione delle aristocrazie». Più tardi, l’archeologo adotta anche il termine post nuragico, intendendo che il ciclo dell’architettura dei nuraghi si chiude col Bronzo finale. Lo stesso appellativo post nuragico era impiegato da F. Lo Schiavo ma avendo in mente una diversa composizione della cultura materiale del I Ferro e del Bronzo
finale. Se infatti diversi studiosi (Lilliu 1988, 1997; Contu 1997, pp. 699-730; Ugas 1998, pp. 260; Bernardini 2007b, pp. 11-30) assegnano al I Ferro una parte consistente della bronzistica figurata indigena, la ceramica a decoro geometrico e i modelli di nuraghe, diversamente altri (Lo Schiavo 2000, pp.117-132; 2002, pp. 70, 52, 59; Santoni 2008 pp. 543-656; Manunza 2008, pp. 250, s) li attribuiscono al Bronzo finale, ritenendo che gran parte degli elementi contenuti nella fase
IV Lilliu debba essere correlata con la funzione primaria dei nuraghi e dunque inclusa nella fase II. Si tratta invero di differenze non trascurabili scaturite principalmente, ma non solo, dalle diverse letture e interpretazioni dei dati stratigrafici degli scavi. Riguardo alla questione terminologica, dal momento
che l’aggettivo nuragico deriva dal vocabolo nuraghe è implicito che la civiltà nuragica termina nel momento in cui i nuraghi non hanno significato per le popolazioni sarde e dunque nel momento in cui non vengono più costruiti e, soprattutto, perdono la funzione primaria di residenze di capi. Nonostante le differenze di idee già rimarcate, gli studiosi sono sostanzialmente d’accordo sulla data in cui i nuraghi non furono più costruiti: intorno al 900-850 a.C. secondo la cronologia tradizionale e pertanto il I Ferro sardo può essere considerato post nuragico, ma occorre tener presente che questo termine è inadatto per definire una facies o un periodo dal momento che post nuragico è qualsiasi evento successivo ai nuraghi, anche dell’età contemporanea. Inoltre, ed è la cosa fondamentale, molti nuraghi non furono abbandonati nel I Ferro ma ristrutturati e utilizzati come templi ed è palese che essi mantennero un ruolo fondamentale tra le comunità del IX-VII secolo, come ben evidenzia anche la riproduzione dei tanti modelli di nuraghe in pietra, bronzo e argilla. Anzi, proprio sotto il segno emblematico del nuraghe le aristocrazie vivono tutta la fase geometrica del I Ferro e dunque l’espressione “nuragico finale” ben si addice almeno a questo segmento temporale, benché connesso con un nuovo modo di sentire il mondo dei nuraghi da parte dei Sardi del tempo. Invero, per tutto il periodo che corre tra il IX e il secolo VI, nell’isola non si conoscono esempi di fortificazioni indigene diverse dai nuraghi ed è possibile,
anzi, che diversi nuraghi siano stati ristrutturati e rivitalizzati come fortezze nel VI secolo, per far fronte al generale cartaginese Malco (Meloni 1947, pp. 107-116), o già prima negli ultimi decenni del secolo VII, quando le lotte intestine portarono a incendi e distruzioni di vari edifici, in particolare le sale del consiglio (S. Anastasia di Sardara: Ugas e Usai 1987). Una fortissima resistività del nuraghe emerge anche in tempi successivi. In età romana numerosi nuraghi erano ancora luoghi sacri (Lilliu 1990) e nel sacello-fortezza di su Mulinu di Villanovafranca l’altare a forma di nuraghe accompagnò i culti sino al II secolo d.C. (Ugas 1992). Ancora più in là, in età vandalica e bizantina, il nuraghe (San Teodoro di Siurgus, Su Mulinu) diventa un luogo cimiteriale come gli altri edifici sacri cristiani (Ugas e Serra 1990, pp. 107-131; Ugas 1986, p. 77). Ciò considerato, si può ben impiegare l’appellativo nuragico anche per indicare il I Ferro e le sue
facies archeologiche. Non di meno può essere usato l’aggettivo “sardo”, a condizione che lo si considerigenericamente riferito alla Sardegna e non come un limes cronologico della “sardità”.
2. I richiami delle fonti letterarie antiche
Le notizie della letteratura antica offrono un sostegno non trascurabile per comprendere la situazione politica e sociale della prima Età del Ferro in Sardegna.
Il passaggio del potere dalle dinastie tribali (tespiadi) agli aristoi
Si deve a Diodoro Siculo (V,15) una straordinaria informazione sul tracollo delle dinastie tribali nuragiche, dopo circa sette secoli, e sul contestuale passaggio del potere dai capi tribù insediati nei nuraghi alle aristocrazie del I Ferro: «… I Tespiadi iolei signori dell’isola per molte generazioni, furono alla fine cacciati, si rifugiarono in Italia e si stabilirono nella zona di Cuma; la gente (iolea) rimasta si imbarbarì, ma scegliendo come capi gli aristoi, difese la sua libertà sino ai nostri giorni». In precedenza era stato lo stesso Diodoro (IV, 29-30), oltre che lo Pseudo Aristotele (par. 100), a interpretare come una deduzione di colonie dei principi tespiadi guidati da Iolao il sistema di governo dei capi tribali nuragici, sostenuto dalle residenze fortificate, fondato sui lignaggi parentali e sulla successione matrilineare rivelata dal sacrificio rituale dei vecchi re (Ugas 2006, pp. 32-34). Questi Iolei, che per Diodoro e altri storici greci erano Eraclidi provenienti da Tespi in Beozia, mentre i Romani li chiamavano Ilienses facendoli discendere da Ilio patria del loro antenato Enea (Didu 2002, pp. 94-136), sono stati identificati in una popolazione protosarda nuragica, gli Iliesi, di antica matrice mediterranea insediata in tutto il centro-sud dell’Isola sino alla linea del Monti Ferru – Marghine difesa dai Balari di matrice iberica (Ugas 2006, p. 31). Il nome degli Ilienses, che appare in forma contratta nell’iscrizione romana di Nurac Sessar di Bortigali (Paulis 1993) doveva essere messo in rapporto con quello di un eroe progenitore divinizzato, forse *Il, che i Greci identificarono in Iolaos e che i Fenici assimilarono alla massima divinità cananea El/Il.
2.2. Le grandi opere degli aristoi
Diodoro non si limita a enunciare il trapasso dal governo dei capi tribali a quello delle comunità patrizie, ma offre anche essenziali notizie sulla nuova società aristocratica. Infatti, lo storico greco-siculo (ancora in V,15) così si esprime: «… (Iolao) fece palestre (gymnàsia) per i giovani, templi in onore degli dei e tutte le altre cose che rendono felice la vita degli uomini». Non diverso e anzi più specifico
è il passo IV, 30 nel quale lo stesso Diodoro afferma che «… allora Iolao, costituita la colonia, mandò a chiamare dalla Sicilia Dedalo e fece costruire molte e grandi opere rimaste sino ai nostri giorni chiamate dal loro architetto “Daidaleia”. Edificò inoltre grandi e meravigliose palestre (gymnàsia megàla te
kai polytelè) e istituì i dikastèria e tutte le altre cose che conducono alla prosperità». Ora, se una parte delle mirabilia architettoniche fatte costruire per gli Iliesi si addicono al Bronzo medio e recente, essendo assegnabili per lo più a questo periodo i tholoi (nuraghi) e certi daidàleia, come le tombe di giganti, i templi dell’acqua e i primi edifici sacri “a megaron”, diversamente, la menzione di palestre (gymnasia) e di sedi dei giudici (dikastèria), ben inquadrabili nell’atmosfera delle società aristocratiche, segnala che l’architettura degli Iolaioi di cui parla Diodoro è riferibile almeno in parte al I Ferro. Allora, infatti, si riscontrano effettivamente edifici destinati alle riunioni presiedute da
giudici (le rotonde delle riunioni), templi, palestre per i giovani e «tutte le altre cose che conducono alla prosperità» e che meglio si addicono alla nuova temperie delle aristocrazie. La floridezza dell’economia e il benessere delle comunità sarde prima che iniziasse l’occupazione cartaginese, al tempo dei gymnasia e dei dikastèria, emerge dai tanti passi della letteratura classica sulla
eudaimonia della Sardegna (Perra 1993, 1997) e in particolare dai richiami all’eroe civilizzatore Aristeo, che dalla Beozia, attraverso la greca Cirene nordafricana, recava in abbondanza all’isola i prodotti della terra, della caccia, dell’allevamento e dell’agricoltura (Ugas 1985, pp. 210, s; 2001). L’alter ego sardo di Aristeo è riconoscibile in diversi bronzi protosardi (Nicosia 1981 p. 425-427; Ugas 1985; Bernardini 2005, nota 3) e in particolare in un gruppo proveniente dal grande tempio in antis di Domu de Orgia di Esterzili (Fadda 2001, pp. 62-67), che propone l’ieròs logos del sacrificio di un Atteone sardo trasformato in cervo e ucciso dai cani a fianco di una, inedita regale immagine di Aristeo con la lancia.
2.3. La fine degli aristoi
Che il I Ferro si concluda con l’occupazione cartaginese di una parte della Sardegna intorno al 510, a seguito dell’attacco di Asdrubale e Amilcare, lo dicono non solo le notizie circostanziate di Giustino (Historiae philippicae, XVII-XIX), Paolo Orosio (Hist. adversus paganos libri septem, IV,6,6- 7), Diodoro (Bibliotheca historica, V.15,4) e Polibio (Storie II,22,1), ma anche due passi, uno di Diodoro
Siculo (Bibliotheca II,55) e l’altro di Servio (V) che raccontano in veste mitica lo stesso evento, amarissimo, per i Sardi. L’informazione di Servio, sempre molto ben informato sulle cose dell’isola, merita di essere richiamata perché per la prima volta è sostenuta l’esistenza di una flotta da guerra sarda: «(Forcus) fu un tempo il re della Corsica e della Sardegna che, essendo stato sconfitto e sbaragliato
dal re Atlante in battaglia navale con gran parte del suo esercito, i suoi compagni immaginarono fosse trasformato in divinità del mare». Dietro il nome di Atlante non può celarsi che Cartagine, mascherata anche nella città della grandissima e potente terra di Atlantide proposta miticamente nel Timeo e nel Critia da Platone (Pallottino 1963, Ugas 1996). La notizia di Servio sottintende che i Sardi e i
Corsi (della Sardegna e/o dell’Isola gemella), oltre ad avere il culto per una divinità marina, disponevano di una flotta da guerra ritenuta in grado di opporsi a quella cartaginese. Lo scontro sul mare tra i Sardi di Forcus e Cartagine atlantidea deve essere avvenuto già prima della battaglia di Alalia del 540 (Colonna 2000, Gras 2000; Morel, 2000), poiché allora Cartagine aveva già il dominio del mare che
a Est circonda l’isola, e prima che, intorno del 535- 530 a.C., il generale Malco sferrasse il suo infelice attacco di terra alla Sardegna (Lilliu 1992, pp. 17-25) poiché allora, per condurre le sue truppe di terra contro gli Iliesi, Cartagine doveva avere il controllo almeno delle coste meridionali della Sardegna in
prossimità di Caralis, la porta sulle piane iolee del Campidano.
3. Il passaggio dal Bronzo finale all’inizio del Geometrico
Uno dei puntelli per il Bronzo finale sardo è, come si sa, la facies eoliana dell’Ausonio II (Bernabò Brea e Cavalier 1980). I materiali fittili sardi documentati nel Castello di Lipari (Contu 1980, Ferrarese Ceruti 1987) rientrano nell’ambito della facies di Barumini-S’Urbale del Bronzo finale II (Ugas 1998a, p. 259) caratterizzata dai manufatti della cap. 135 di Su Nuraxi di Barumini (Lilliu
1982, fig. 110), della capanna F di S’Urbale di Teti (Fadda 1985) e della capanna 6 di Bruncu Madili di Gesturi (Lilliu 1982, figg. 116-119). Occorre rimarcare che i materiali sardi del Castello di Lipari sono stati trovati nei depositi finali di frequentazione delle capanne α II e α IV e soprattutto nello strato d’incendio devastante che ha provocato l’abbandono del sito (Bernabò Brea e Cavalier 1980, p. 41). Ora, poiché quest’incendio è attribuito all’850 a.C. sulla base dei riscontri della letteratura antica (Bernabò Brea e Cavalier 1979, p.74, s), è palese che i reperti sardi appartengono alla fine dell’Ausonio II, presumibilmente già alla prima metà del IX, e non è da escludere che nella distruzione dell’Acropoli siano stati coinvolti gli stessi Sardi, poiché la data tende a coincidere con i tempi della diaspora dei capi tribali nuragici di cui si è parlato, benché su questo punto non esista alcun riscontro nelle fonti letterarie antiche; queste riferiscono soltanto delle paure che i discendenti dei Liparoti superstiti nutrivano per i pirati tirreni quando, verso il 580 a.C., vi approdarono gruppi di Cnidii e di Rodii. Ciò considerato, vi sono i presupposti per fissare alla data dell’850 a.C., proposta dal Bernabò Brea per l’incendio del Castello di Lipari, la linea di confine tra il Bronzo finale e l’inizio del I Ferro sardo connotata dalla diaspora dei “re tespiadi e dall’avvento delle aristocrazie. Tuttavia, è preferibile ancora proporre l’inizio del I Ferro in doppia cifra, 900- 850 a.C., tenuto conto dei possibili correttivi della cronologia calibrata, i quali però si scontrano con il dato letterario su indicato, e delle sincronie con le facies extrainsulari affini al Geometrico sardo.
È già stato ampiamente osservato che le forme e l’ornato a trecce impresse a stecca o a punti profondi delle brocche a bocca sbiecata e delle anfore a collo con anse a gomito rovescio sarde di Lipari trovano riscontro in analoghi manufatti del villaggio di s’Urbale-Teti (Fadda 1985, figg.11, 12) e di vari siti dell’Oristanese (Sebis 1998, tavv. XVII, XXV; Ugas 1995, tav. II). Una parte dei reperti sardi del Castello di Lipari, quali le brocchette a collo largo con beccuccio sull’ansa e le anfore con anse a gomito, le une e le altre ornate a cerchielli semplici stampigliati (a cannuccia) rientrano pienamente nel Geometrico sardo e possono ben appartenere ai tempi dell’incendio della metà del IX secolo. Infatti, è evidente l’analogia con le anse a beccuccio delle brocche dei vani 10 e 12 di Genna Maria (Badas 1987, tavv. IV-V di p. 143, s), e di Sant’Anastasia (Ugas e Usai 1987, tav. VII, d), e con le anse a gomito delle anfore ancora di Genna Maria (vani 12, 17, in Badas 1987, tavv. II,4). In ogni caso, i manufatti sardi delle Lipari segnano o un unico momento di transizione Bronzo Finale/I Ferro o due segmenti strettamente contigui. Se si tratta di un unico momento significa che le ceramiche tipo s’Urbale possono scendere alla metà del IX, se invece si è di fronte a due momenti differenziati sia pur contigui, allora la distruzione di Lipari dell’850 a.C. avviene quando era già iniziato il Geometrico sardo e in tal caso l’aspetto “protogeometrico” (termine più adatto del generico pregeometrico) di Barumini-s’Urbale, potrebbe occupare il sec. X, come già stato supposto (Ugas 1998 a). Comunque sia, i dati delle Lipari confermano il ruolo di limes della facies Baruminis’Urbale tra il Bronzo finale e il I Ferro. La capanna F di s’Urbale di Teti non ha restituito bronzi figurati ma è presumibile (non esiste alcun riscontro stratigrafico) che alla facies di Barumini-s’Urbale possano essere attribuiti tanto le brocche tipo S. M. Paulis e i tripodini in bronzo con l’ornato a trecce di tradizione cipriota (Macnamara et alii 1984; Lo Schiavo et alii 1985) quanto i bronzi figurati di produzione e imitazione fenicia dello stile I Lilliu (Liliu 1997), connessi con i primi influssi e i primi movimenti coloniali fenicio-ciprioti.
Infatti, occorre tener conto del fatto che i bronzetti dello stile II vanno ascritti alla seconda metà del secolo IX, come si evince dal contesto della figurina di Antas (Ugas e Lucia 1987) oltre che della chiara pertinenza dello stile II Lilliu (Abini: Lilliu 1997) al Geometrico apicale della facies di Genna Maria (Ugas 1998). Ciò è in sintonia con la sequenza degli eventi mediterranei in occidente che, prima vedono l’arrivo dei navigli fenici nella prima metà del sec IX e solo dopo, a partire dal 2° quarto dell’VII, cominciano le fondazioni coloniali euboico-cicladiche che fecero pervenire anche nell’isola i prodotti del loro artigianato e che contribuirono fortemente alla raccolta delle informazioni sulla Sardegna, tramandate successivamente dall’antica letteratura greca. All’ambito greco continentale e insulare, in ogni caso si ispirano le ceramiche e i bronzi sardi del Geometrico maturo, che anche nell’isola potremo chiamare Geometrico II (circa 770-730), allineandolo con il Villanoviano II e, più puntualmente, con il Geometrico Tardo IA della Grecia. Ceramiche di stile s’Urbale sono state reperite di recente in uno strato del cortile nel Nuraghe Asusa- Isili formato dal terriccio, proveniente dalla pulitura del pozzo del mastio (Saba e Ugas, ricerche inedite), utilizzato per impostare il piano di calpestio del I Ferro, alfine di consentire il riuso della fortezza dopo la distruzione. Anche lo strato di frequentazione del silo della torre Sud del quadrilobato di Su Nuraxi a Barumini prima dell’abbandono dell’edificio (Lilliu e Zucca 1984 p. 41) era pertinente alla fase delle ceramiche di S’Urbale. Pertanto, da un lato, i manufatti sardi di Lipari sono pertinenti all’ultimo periodo d’uso primario dei nuraghi, così come era stato postulato per il complesso dei materiali della facies di Barumini-S’Urbale (Ugas 1998, p. 259), dall’altro, la data di distruzione dell’acropoli di Lipari, intorno all’850 a.C., è la stessa o molto prossima a quella della caduta dei capi tribali nuragici. Vien da pensare, dunque, che anche la brocchetta bronzea da Scala Santa di Vetulonia, che richiama il tipo di S. Maria di Paulis (Baggiani 2002, pp. 413-417, fig.1, tav. II,b), segni lo stesso limite cronologico indicato a Lipari dalla ceramica tipo s’Urbale e fissi l’inizio della diaspora dei Sardi in Etruria e del Villanoviano I nella I metà del sec. IX. Frequentemente gli scavi condotti nel villaggio di Su Monte a Sorradile sono utilizzati come puntelli per inquadrare la bronzistica protosarda e i modelli di nuraghe al Bronzo finale se non anche al Bronzo recente (Santoni e Bacco 2008, pp. 581- 622), in sintonia con le tesi di F. Lo Schiavo (2000, pp. 117-134). Simile è anche l’idea sulla cronologia dei bronzi figurati proposta da M. R. Manunza a seguito degli scavi condotti nell’area del tempio a pozzo di Funtana Coberta di Ballao. Data l’eco della questione è indispensabile riconsiderare questi due lavori. Per quanto attiene lo scavo di Su Monte va detto subito che la ragione della datazione alta deriva da un’errata lettura stratigrafica dello scavo della capanna A. Nello strato 40, caratterizzato da pietrame disarticolato (crollo o rimestamento), questa capanna ha restituito un gruppo di bronzi strumentali e una navicella con protome d’ariete, non rottamati e dunque in uso quando l’edificio fu abbandonato. Nella sottostante US 41, ancora con numeroso pietrame, insieme a frammenti di vasellame del Bronzo finale vi era una brocchetta askoide a collo stretto ancora intera (A903) e altre ceramiche del Geometrico finale tra cui pezzi di anfore piriformi (A546 e A604) e di un grande cratere con anse a gomito (A706). Dunque la US 41 va ascritta al Geometrico II (facies di Genna Maria II) e anche i
bronzi della soprastante Us 40 appartengono allo stesso periodo, se non agli inizi dell’Orientalizzante antico, come suggerisce il frammento di brocchetta ornata a falsa cordicella (A7) rinvenuto nella sottostante US 43 (alla base dell’altare turrito!) e che faceva coppia con un pezzo d’anfora piriforme con falso colatoio (A1034) pertinente alla facies di Genna Maria II. Ovviamente anche l’altare turrito
appartiene al I Ferro, come quelli delle sale del consiglio di S. Anastasia di Sardara (Ugas e Usai 1987 p.172, s, tav. V, 50, tav. VII,b), di Palmavera (Moravetti 1977, 1980) e del vano e di Su Mulinu (Ugas e Paderi 1990; Ugas 1992). La US 43, con la quale viene correlato l’altare (ricomposto e reinserito sul posto), risulta palesemente rimestata poiché contiene un deposito del Bronzo recente caratterizzato da tegami ornati a pettine intaccato da manufatti in stile s’Urbale del BF, presenti soprattutto nella US 42, su cui insistono i soprastanti livelli del I Ferro, rimestati a loro volta nella parte centrale della capanna da moderni cercatori di tesori. In ogni caso, l’impianto dell’altare-nuraghe nella zona mediana della capanna A, che taglia gli strati di frequentazione pertinenti al BF e al BR, appartiene al Geometrico in piena coerenza con i reperti del I Ferro rinvenuti nelle US 41 e 40 e nei sottostanti strati 42-43 rimestati. D’altronde, la pertinenza alla fine del Geometrico e agli inizi dell’orientalizzante dei bronzi di Su Monte è ben in sintonia con i manufatti enei del c.d. ripostiglio di Tadasuni, ora attribuiti alla stessa località di su Monte (Santoni 2008, fig. 2 di p. 636) e rimossi in precedenza forse proprio dalla capanna A; si segnalano una maniglia con attacchi a spirali di calderone tipo Bentingheddu (Lo Schiavo 1981, p. 318, fig. 364; 1986 p. 242, fig. 16,10) e un pezzo di thymiaterion a corolla, fenicio, riconducibile al più presto al sec. VII (Tore 1986). Non a caso dalla capanna A di su Monte proviene anche una coppa di tradizione fenicia (scheda n.70 in Santoni e Bacco 2001, pp. 31-33, 92) ascrivibile al VII-VII secolo (Bernardini 2007b, nota 13). Per quanto attiene lo scavo condotto da M. Rosaria Manunza (2008) in un settore non distante dal tempio a pozzo nuragico di Funtana Coperta di Ballao, va premesso che attorno all’edificio sacro sono stati evidenziati i resti di un villaggio che ha iniziato il suo corso nel BR o nel BM finale e che i materiali più recenti risalgono al II secolo d.C. Nel corso dell’indagine, ben illustrata, sono stati trovati tra l’altro, in diverse US, tre pezzi bronzei pertinenti a figurine umane e un’olla fittile a labbro ingrossato (n.182, US 116 del vano α) colma di pezzi di lingotti ox hide in rame, di pezzi di spade a costolatura mediana e di altri manufatti in bronzo
rottamati (Ibid., p. 232). Occorre dire che l’interpretazione del processo stratigrafico dello scavo del vano α è condizionata da una supervalutazione degli elementi in giacitura secondaria del BR-BF della US tagliata dal ripostiglio con l’olla, da cui è scaturita un’attribuzione della stessa olla n.182 al Bronzo recente anziché agli inizi del I Ferro. Quest’olla va fissata agli inizi del I Ferro per la sua forma globoide rastremata verso la base, il labbro chiodiforme, le anse ad anello a quasi circolare tipiche anche di scodelle biansate come quelle del ripostiglio pure con pezzi di ox hide della capanna 1 di Sant’Anastasia (Ugas e Usai 1987) e del vano 12 di Genna Maria (Badas 1987, tav. IV) e ancora per il sottile velo dell’engobbio che lascia trasparire la pasta argillosa a inclusi silicei e soprattutto micacei tipici dei fittili dello scorcio del BF e degli inizi del I Ferro. I pezzi di bronzi figurati rinvenuti nello scavo, provenendo da strati soprastanti, risalgono tutti a tempi coevi o più recenti del ripostiglio con i lingotti e non già, come supposto, al Bronzo finale.
Fasi e facies archeologiche
La cronologia, la terminologia e la scansione in fasi del I Ferro sardo hanno come paradigmi i quadri archeologici della Grecia e della penisola italiana e in particolar modo dell’area etrusco-laziale (Ugas 1998a, p. 259, s). In linea di massima l’esordio della prima età del Ferro nell’isola coincide con il tradizionale inizio del Villanoviano che cade intorno al 900-850 a.C., salvo correttivi dendrocronologici che la riporterebbero indietro a circa il 1020 a.C. (Bartoloni G. 2004, p. 110), mentre il suo ciclo si fa chiudere con l’occupazione cartaginese delle piane della Sardegna, intorno al 510 a.C. suggellata dal primo accordo tra Roma e Cartagine (Polibio, Storie II, 22,1), data prossima a quella del 480 che in Grecia chiude la fase arcaica e inizia quella classica. Le ricerche dell’ultimo venticinquennio in Sardegna e in Etruria consentono di formulare una proposta di ripartizione in due fasi del Geometrico sardo, in sintonia col Villanoviano e col Geometrico antico e medio della Grecia. Per le scansioni dei momenti successivi del I Ferro sardo si è tenuto conto soprattutto dei lavori di Ugas 1986 e 1998, di Lilliu 1988 e 1997 e di Contu 1997. Le fasi archeologiche del I Ferro sardo sono le seguenti: Geometrico, 900/850-725 a.C. ripartito in due sottofasi, Geometrico I e II; Orientalizzante, 725-600 a.C., suddiviso in antico e medio-evoluto; Arcaico, 600-510 a. C. (Tab. I). Qui appresso è presentato un quadro, forzatamente
schematico, degli elementi più significativi che connotano le diverse facies archeologiche del I ferro sardo, privilegiando i dati relativi ai manufatti provenienti da contesti accertati.
Il periodo Geometrico (900/850-730 a.C.)
1 Geometrico I
Il contesto di riferimento è quello di Genna Maria di Villanovaforru, vano 17 (Badas 1987, p. 140, tav. II). A ragione di ciò sembra opportuno definire questa fase come Genna Maria I. Contribuiscono a comporre il quadro dell’aspetto di Genna Maria I anche i contesti di Sant’Anastasia, capanna1, US 4 (Ugas e Usai 1987, tav. II, 1-3), capanna 5 US 4b (Ugas e Usai 1987, tav. II); Monte Zara capanna 46, US 4c (Ugas 2001); sepolcreto a pozzetti di Antas in Fluminimaggiore (Ugas e Lucia 1987). Nella ceramica di questa facies, la decorazione si limita a motivi simbolici in rilievo (barretta betilica, crescente lunare, disco, forcella, pugnale a elsa gammata), su ciotole carenate a spalla rigida, a isolate fasce orizzontali impresse a stecca sulla spalla delle brocchette askoidi, e a grossi punti impressi sulle anse a bastoncello schiacciato inferiormente dei vasi potori. Le forme fittili tipiche e/o dominanti sono: brocche con bocca a taglio obliquo e corpo che tende al globulare; scodelline a calotta sferica; anfore ad alto collo con ansa a gomito rovescio; scodelloni lenticolari biansati, ciotole decoro di simboli in rilevo, attingitoi a scodella a calotta; coppe da cottura a fondo convesso; caldaie con anse a nastro, sulla spalla svasata; tegame biansato a spalla convessa; olle con labbro ingrossato; doli a labbro ingrossato triangolare con grandi prese a x; fiasche piano convesse a due anelli; lucerne monolicni cuoriformi a spalla semplice o a piattello Altri manufatti emblematici: i bronzi figurati della fase II Lilliu (1997), es. da Antas (Ugas e Lucia 1987, tav. V), e le lucerne in bronzo monolicni cuoriformi con protome zoomorfa, come quelle di Abbasanta, Baunei (?) (Lilliu 1966, nn. 270, 191; Gras 1980, p. 536, s), Su Benatzu di Santadi (Lo Schiavo e Usai 1995, fig.17).
2 Geometrico II
Il contesto guida di questa sottofase è quello di Genna Maria, vani 11, 12 (Badas 1987, tav. II A, IV), definito Genna Maria II per distinguerlo dal precedente. Tra gli altri contesti rivelatori di questa facies vanno tenuti in considerazione, in primo luogo, quelli di Barumini, capanna 135 fase D (Lilliu 1955, p. 457; 1982, fig. 153 a sin.) e del sepolcreto a pozzetti, cippi-nuraghi e statue di Mont’e Prama di Cabras (Lilliu 1978, 1997; Tronchetti 1986; Bedini et alii in stampa). Nella ceramica, la decorazione geometrica invade tutta la superficie delle brocche e delle anforette piriformi a falso beccuccio, con fasce anche verticali disegnate a impressioni superficiali della stecca o a incisioni (motivi a chévrons o linee spezzate), o stampigliate (cerchielli semplici e concentrici). I motivi simbolici a rilievo tendono a concentrasi sulle brocche (segno della forcella o a y). Forme tipiche e/o dominanti: anfore piriformi con falso beccuccio, ornate anche con figure umane, in esemplari di Genna Maria, vano 12 (Badas 1987, tav. IV), S. Anastasia (Taramelli 1918, fig. 99-100, tav. VII, 64), Is Paras di Isili (Saba 2000, tav. 11, 13.10) e con disegni di nuraghi, in esemplari da S. Anastasia (Taramelli 1918, tav. VII, 64; Ugas 1980, tav. 12, 1-2) e Genna Maria (Atzeni et alii 1988, tav. 15). Sono attestate: brocche a collo largo e bocca a profilo obliquo ondulato; brocche askoidi a collo stretto a corpo ancora tendenzialmente biconico o globulare appiattito alla base; anfore ad alto collo con anse a gomito; fiasche piano convesse a quattro anelli; scodelline emisferiche; doli a labbro a spigolo con prese forate in alto sulla spalla; lucerne cuoriformi a spalla carenata, talora con presa semplice o a protome zoomorfa schematica (Genna Maria vano 11: Badas 1987, tav. II) e poi lucerne a contorno piriforme con protome zoomorfa (Su Mulinu: Ugas 1992); pintaderas a disco (Genna Maria vano 10: Badas 1987, tav. 5). Altri oggetti tipici del Geometrico II sono le figurine in bronzo caratterizzate da occhi cerchiati pertinenti allo stile Abini, fase II Lilliu (1997). Rilevano questa fase anche le lucerne enee con protomi zoomorfe e castello di prua a forma di torre nuragica e, verso la fine della fase, con presa a quattro bracci e anello di sospensione.
3 Insediamenti ed edilizia abitativa
Le vistose trasformazioni, che si osservano nei nuraghi agli inizi del I Ferro, a seguito delle distruzioni, indicano che oramai il baricentro delle comunità è il villaggio; non esistono più, come nell’età del Bronzo, nuclei abitativi dipendenti dalla residenza del capo tribù e dei capi minori dei cantoni, ubicati in prossimità e direttamente al servizio del nuraghe, oppure distanti e vincolati al territorio agricolo e pastorale (Ugas 2006). Ora, nel Geometrico le case si dispongono spesso a ridosso e sopra i resti delle cinte antemurali delle regge abbattute. Queste case, si presentano non più monocellulari, come in genere nel Bronzo recente e finale, ma a
isolati formati da più ambienti, in genere da 6-8, disposti a corona attorno a una corte centrale, come quelle documentate a Genna Maria-Villanovaforru (Badas 1987, tavv. I-VII), su Nuraxi-Barumini (Lilliu 1955, 1988; Lilliu e Zucca 1982, fase c), S. Imbenia di Alghero (Bafico 1986; Bafico et alii 1995, 1997), Santa Vittoria di Serri (Taramelli 1931, tav. I; fig.66; Zucca 1988, fig.69).
Le abitazioni
Gli isolati abitativi, in genere a sviluppo circolare o ellittico, sono articolate in vani destinati alla preparazione del cibo e ai pasti, al pernottamento, a laboratori. Talora le dimore più ragguardevoli includono anche un piccolo ambiente circolare provvisto di bacile e vasca e forno adiacente destinato ai lavacri con acqua fredda e calda, sostanzialmente ad uso termale. I vani, a sviluppo prevalentemente rettilineo e tetti lignei a spiovente, sono costruiti con muri totalmente di pietre di media e piccola pezzatura tendenzialmente lastriformi, oppure (nel Campidano) con un basamento di pietre nastriformi o fluviali e una sovrastruttura in mattoni di fango parallelepipedi (ladiris). Si trovano esempi dei primi a Su Nuraxi-Barumini (Lilliu 1955, 1982; Lilliu e Zucca 1984), Genna Maria (Badas 1987, tavv. IVII) e Sedda Sos Carros di Oliena (Fadda 1993a). Case di ladiris sono documentate a Sant’Anastasia (Ugas e Usai 1987, tav. VII a) e Monte Zara di Monastir (Ugas 2001, tav. XIX). Altri isolati annettono ambienti circolari, talora più antichi, con copertura lignea conica impostata su uno zoccolo murario: Serra Orrios di Dorgali (Ferrarese Ceruti 1980, tav. XXXIV; Moravetti 1998, figg. 25, 32, 35); Serucci di Gonnesa (Santoni e Bacco 1987, 1989); Santa Vittoria di Serri (Taramelli 1914, 1931; Zucca 1988). In alcuni casi si notano anche isolati con grandi ambienti circolari al centro, come a M. Zara, dove il recinto 2L42 contiene la capanna del torchio 46 (Ugas 2001; Ugas scavi inediti 2008). Molti segni evidenziano che sin dal IX secolo i villaggi sardi tendono all’urbanizzazione ma non è chiaro sino a che punto sia maturato questo processo. Le case sono provviste di laboratori, magazzini e servite dalle prime infrastrutture. Tra il IX e il sec. VII sono attestati forni per la ceramica con colonnina centrale a San Sperate (Ugas 1993, tav. XI a), forni per il pane “a palla” con bocca sovrastata da arco talora monolitico nel vano 30 e nella casa a corte 11 di Su Nuraxi di Barumini (Lilliu 1955; Lilliu e Zucca 1984, fig. 66), resti di tante fornaci per fonderia, ad es. Sant’Anastasia (Ugas e Usai 1987, tavv. XII-XIV), Santa Vittoria di Serri
(Taramelli 1931, figg. 25-26), Abini-Teti (Taramelli 1931) e in tanti altri villaggi. Un torchio per la vinificazione proviene dalla citata casa con recinto di Monte Zara in Monastir (Ugas 2001). Frequenti sono i pozzi idrici nei villaggi, come a San Sperate (Ugas 1993) e a Su Nuraxi di Barumini (Lilliu 1955; Lilliu e Zucca 1984), dove pure si notano canalette per il deflusso dell’acqua, mentre condotte idriche captavano le acque sorgive a Sant’Anastasia (Ugas e Usai 1987 p. 168, tav. I, 1, tav. II, b) e a Gremanu (Fadda 1990, 1993). Si osservano i primi segni di viabilità nei viottoli dei citati villaggi di su Nuraxi di Barumini, Serra Orrios di Dorgali e S. Vittoria di Serri. Nell’abitato proto urbano di San Sperate è stata individuata una larga strada lastricata pertinente già al secolo VII (Ugas 1993, p. 46, tav. XI, a) ma si tratta di un caso eccezionale. Comunque, i carri a circolare a giudicare dalle ruote in bronzo offerte alla divinità, dai carrelli-porta gioia, dal modellino bronzeo di carro leggero di cocchio per cavalli da Serri (Tanda 1986; Lilliu 1993) e dai due carri scolpiti sul bordo della navicella in bronzo da Crotone (Spadea 1993, pp. 1-34; Lilliu 2000, pp.181-216), forse carichi di una botte lignea da vino. A giudicare dall’immagine di Crotone, i carri sardi trainati da buoi erano a ruote piene come il plaustrum romano e i veicoli utilizzati nell’isola per il trasporto pesante sino secolo scorso. Allora cominciavano a viaggiare e ad esibirsi anche i cavalieri, come si evince dalla statuina bronzea di eroe–arciere in piedi sul cavallo da Saliu-Sant’Antioco (Lilliu 1966, n. 190), immagine della “balentia” aristocratica. Ma i segni che connotano con grande evidenza questo nuovo status del villaggio che tende verso la polis, sono la sala del consiglio, il tempio o il santuario, sedi rispettivamente dei rappresentanti politici e religiosi della comunità, la palestra funzionale alla crescita dei giovani dell’élite.
Sale del consiglio dei villaggi e dei distretti tribali
Una delle novità più importanti nei villaggi del Geometrico è la presenza pressoché costante di grandi rotonde con bancone-sedile a giro, spesso provviste di due nicchie e di stipetti a muro. In questi edifici circolari vanno riconosciuti i citati dikasteria degli Iolei/Iliesi menzionati da Diodoro. Nei dikasteria, non soltanto venivano prese le decisioni sulla giustizia, ma anche e soprattutto venivano amministrati gli affari pubblici; erano sostanzialmente sedi politiche prima ancora che giudiziarie. I dikastai nuragici, non erano semplici giudici di un tribunale, ma svolgevano un ruolo politico assimilabile a quello dei sufetes, i giudici delle città fenicie, e a quello, a un livello più alto, dei giudici delle tribù israelitiche. La copertura delle curie era conica e realizzata con travi lignee impostata su un robusto zoccolo murario in pietre, a giudicare dal modello bronzeo di S.Anastasia (infra) e come già era stato supposto sulla base dei resti degli edifici di Santa Vittoria- Serri, Su Nuraxi di Barumini (Capanna 80: Lilliu 1955; Lilliu e Zucca 1984, fig. 64), Palmavera (Moravetti 1977); S. Anastasia, cap. 5 (Ugas e Usai 1987) (Fig. 3), Santa Cristina di Paulilatino (Lilliu 1982), M. Sant’Antonio di Siligo (Lo Schiavo 1992), M. Siseri di Alghero e Noddule di Nuoro (Fenu 2008). Eccezionalmente apparivano intonacate le pareti della sala del Consiglio di Su Mulinu di Villanovafranca (capanna 7cda: scavi inediti) che doveva essere coperta da un grande tholos.
Palestre
In alcuni villaggi, quali Funtana Sansa di Bonorva, Forraxi Nioi di Nuragus, Fonte Niedda di Perfugas (Contu 1997, p. 299), Romanzesu di Bitti (Fadda 1993b; 2002, tav I a) e Sedda Sos Carros di Oliena (Fadda 1993a), si riscontrano grandi edifici circolari o ellittici gradonati, piccoli anfiteatri o odeia, quasi sempre in rapporto con l’acqua (fonti, pozzi e rotonde con bacile). In questi edifici vedrei bene i gymnasia fatti costruire per gli Iliesi da Iolao secondo il passo citato di Diodoro (Ugas in stampa), piuttosto che recinti per i giudizi ordalici (Lilliu 1982, p.192). Le immagini bronzistiche dei lottatori e dei pugili (Lilliu 1966) ben si inseriscono nel clima che, nella prima metà del secolo VII, vede nascere le Olimpiadi. Più probabile invece che i musici, e con essi i danzatori, e i cantori, anch’essi immortalati dalla bronzistica, si esibissero negli spazi in prossimità dei templi.
I bagni
Come già accennato, negli isolati abitativi a corte centrale, spicca per il pregio architettonico un vano rotondo, provvisto di sedile a giro, vasca, grande bacile litico e, adiacente, forno per il riscaldamento dell’acqua. Questo vano, che doveva essere coperto a tholos, talora risulta ora rivestito internamente di mattoncini in pietra (Su Nuraxi di Barumini: Lilliu e Zucca 1984, vano 65), ora, più spesso, di conci isodomi come a Sant’Imbenia di Alghero (Bafico 1986), Bangius di Furtei (Ugas 1986), Gutturu Caddi/Riu Saliu di Guasila (Ugas e Usai 1984 p. 92, fig. 4; Nieddu 2008, pp. 379- 390, figg.1-4, tav.1), e a Sedda Sos Carros di Oliena (Fadda 1993a) dove l’acqua perveniva attraverso doccioni theriomorfi collegati a un canale di adduzione che, passando sotto la vicina palestra, proveniva dal sovrastante pendio del rilievo.
Templi
In questo periodo fanno la loro comparsa i santuari. In alcuni villaggi, di grande rilevanza politica e religiosa e da considerare capoluoghi distrettuali, i preesistenti templi del Bronzo recente e finale sono inseriti in grandi aree santuariali che comprendono nuovi edifici sacri e altre costruzioni sussidiarie,
come si osserva nei siti di S. Vittoria di Serri (Taramelli 1914, 1931), S. Anastasia di Sardara (Id. 1918; Ugas e Usai 1987; Ugas 2009); Matzanni di Vallermosa (Nieddu 2007), Su Romanzesu di Bitti (Fadda e Posi 2006), Sa Carcaredda di Villagrande (Fadda 1992, pp. 173-175; 1997, pp. 255-258; 2000, pp.79-85, fig.112) e Gremanu Fonni (Fadda 1993b). I templi dell’acqua già noti nel Bronzo recente e finale continuano ad essere usati, e forse ancora costruiti nella primissima fase del primo Ferro, in particolare quelli a conci isodomi con atrio a doppio timpano dei citati santuari di S. Vittoria e di S Anastasia, tempio a pozzo II (Ugas 2009). In queste costruzioni si osservano ristrutturazioni del tetto con archi monolitici e cornici a dentelli (Su Tempiesu-Orune: Fadda 1988; Fadda e Lo Schiavo 1992). Cornici a penne e con conci a decoro geometrico dovevano coronare rispettivamente l’architrave e le fiancate dell’ingresso alla scala del pozzo II di S. Anastasia (Ugas 2009), oltre che della rotonda con atrio di Su Monte di Sorradile (Santoni e Bacco 2008). La fase del Geometrico è la stagione dei templi in antis e soprattutto in doppio antis, che segnalano un rapporto privilegiato con l’ambito greco. Sono straordinari esempi di questa architettura gli edifici, provvisti di uno o più ambienti quadrangolari disposti in asse longitudinale, di Serra Orrios di Dorgali (Moravetti 1998), Sa Carcaredda di Villagrande (Fadda 1992), Domu de Orgia di
Esterzili (Fadda 2001), Gremanu di Fonni (Fadda 1993b), Romanzesu- Poddi Arvu di Bitti (Fadda e Posi 2006). Le scoperte archeologiche di questi ultimi decenni hanno rivelato l’esistenza di altre categorie di edifici connessi con la pratica cultuale. Occorre richiamare in primo luogo i templi a vano circolare rotondi, con o senza portico, di Gremanu, S. Antonio di Siligo (Lo Schiavo 1992) e, già visto, Su
Monte. In essi talora si conserva un grande altare a foggia di nuraghe, collocato al centro. I riti ivi praticati non sono ancora ben evidenti a causa degli sconvolgimenti antichi e moderni dei depositi di frequentazione. Diversamente sorprendenti i riti sacri osservati nel nuraghe, trasformato in tempio, di Su Mulinu di Villanovafranca. Anche qui domina un altare a forma di nuraghe, emblema di una divinità maschile identificata da Pausania in Norax (Ugas 2006, pp. 24-29). Come si evince dal crescente scolpito sulla torre, questo nume faceva coppia con una divinità lunare, immagine della dea Madre nel suo aspetto virginale, una sorta di Diana/Artemide sarda. Vi si celebrava al solstizio d’estate una festa con le lumachine di San Giovanni e l’accensione di centinaia di lucerne in terracotta. Oltre all’offerta di porzioni di vittime animali vi era praticato anche un sacrificio cruento nel grande altare turrito coronato di spade, forse culminanti con bronzi figurati a comporre un racconto sacro (Ugas e Paderi 1990; Ugas 1992). Altri nuraghi documentano la loro trasformazione in sacelli agli inizi del I ferro: Nurdole di Orani (Fadda 1990; Fadda e Madau 1991); S’Aneri-Lasplassas (Usai E. 1987); Cuccuru Nuraxi-Settimo S. Pietro (Atzeni 1987; Bernardini e Tore 1987). Templi in grotta, invece, sono attestati nei siti di Su Benatzu-Santadi (Lo Schiavo e Usai 1995), Caombus di Morgongiori, su Fochile e Domu’e s’Orcu di Urzulei (Lilliu 1988, pp. 158, 227,429); da quest’ultimo anfratto proviene il mirabile gruppo
scultoreo in bronzo di Dea col figlio che muore (Lilliu 1966; Ugas 1985, fig. 10).
5.4. Le aree sepolcrali Allo stato attuale della ricerca sono pochissime le aree sepolcrali di questo periodo investigate, ma di straordinaria rilevanza. Le sepolture non sono più collettive, ma individuali: una vera rivoluzione per la Sardegna, una delle patrie dei sepolcri collettivi. Già all’avvio del primo Ferro le tombe sono caratterizzate da pozzetti in cui gli inumati sono deposti seduti, forse nella posizione del banchetto. Finora i pozzetti sono documentati esclusivamente nel settore centro meridionale, quello iliese, dell’isola: M. Prama (Lilliu 1978, 1997; Tronchetti 1986); Antas (Ugas e Lucia 1987) e Is Aruttas di Cabras (Santoni
1977, p. 354, s). Ad Antas i sepolcri erano segnalati da piccoli cippi litici, mentre a Monte Prama spiccano per la monumentalità i cippi – nuraghe e le grandi statue sistemate in origine sopra le lastre che chiudevano i pozzetti. Nel sito di Is Aruttas rendevano visibili le tombe dei crescenti in arenaria collocati, è da credere, sulla cima di un tumuletto. In questo periodo sono note anche altre tipologie di tombe individuali: a fossa a Senorbì (Taramelli 1931b, pp. 78-82); in tafoni in Gallura (Ferrarese Ceruti 1968). Infine vanno richiamate le sepolture che mantengono in alcune “tombe di giganti” l’antico rito dell’inumazione collettiva (Lilliu 1997, p. 319, s).
La produzione scultorea
Il primo Ferro conosce l’esplosione della bronzistica figurata come evidenziano gli studi di Giovanni Lilliu (1966, 1997). Oltre seicento esemplari ne enumera E. Contu (1997, p.735). Alla seconda metà del IX secolo vanno ascritte le figurine dello stile II barbaricino mediterraneizante del Lilliu, in particolare la statuina di eroe o divinità nuda itifallica (Sardo?) da Antas. Ai decenni intorno alla metà del secolo VII risalgono le figurine in stile Abini o Lilliu II connotate da occhi cerchiati, come quelle del sacerdote-pugile di Dorgali e del sacerdote da Vulci (Lilliu 1997, passim). Alla fase II del Geometrico appartengono anche i colossi in calcare di Monte Prama di Cabras (Lilliu 1977, 1997; Tronchetti 1986). La cronologia è sostenuta, oltre che dall’utilizzo dei pozzetti, simili a quelli di Antas, dai
confronti stilistici con i bronzi dello stile Abini, dai già citati disegni con figure antropomorfe e nuraghi delle anfore piriformi, dalle ceramiche ivi rinvenute, ancora inedite (cenno in Santoni e Bacco 2008, p. 607; la notizia relativa ai fittili degli scavi Tronchetti di M. Prama è accompagnata da una proposta di rialzo cronologico ingiustificata, stando alla prima valutazione dei materiali degli scavi Bedini di prossima pubblicazione: Bedini et alii, in prossima stampa), e infine da uno scarabeo ellittico di tipo Hyksos della Tomba T 25 Tronchetti, simile ad un esemplare rinvenuto in una tomba di Tiro ascritta al 760-740 a.C. (Stiglitz 2007b, p. 94). I kolossoi di Monte Prama sono richiamati sul piano stilistico e formale da un gruppo di statue in calcare della necropoli di Monte Saraceno e di Siponto nelle Puglie (Ferri 1965; Nava 1988, fig. 197; 2004). L’analogia con M. Saraceno è impressionante poiché anche qui le grandi statue erano collocate sopra le tombe a pozzetto a inumazione, con individui seduti, una delle quali restituisce uno
scarabeo verosimilmente della stessa età di quello della citata T.25 di M. Prama (Bedini et alii, in prossima stampa). Nell’ambito dell’artigianato scultoreo spiccano i modelli di nuraghe, ora nella funzione di altari negli edifici sacri e nelle sale del consiglio, ora di altari-cippi funerari nei sepolcreti (M. Prama), ora
offerti nei templi, in formato miniaturizzato, come le statuine e le faretrine. Sia i grandi esemplari, in pietra tenera, propongono la torre singola, il bastione quadrilobato (in maggior numero di esempi), il trilobato e infine la cinta esterna con otto torri, invece i piccoli, realizzati in bronzo, argilla e ancora pietra anche dura, mostrano esclusivamente i monotorri e i quadrilobati (Ugas 1980; Moravetti 1980; Tronchetti 1986; Lilliu 1997). Il modellino in bronzo di Ittireddu evidenzia su un lato un tempietto rettangolare con tetto a doppio spiovente, forse un sacello dell’acqua analogo a quello di su Tempiesu di Orune. Sull’altro lato, mancante, forse vi era riprodotto un modello di dikasterion analogo a quello di S. Anastasia (infra). Di grande interesse, l’altare litico a foggia di nuraghe trilobato da Cannevadosu di Cabras (Ugas 1980, tav. 1-3) mostra una figurina in rilievo, verosimilmente di antenato–sacerdote, così come il modello quadrilobato da Paulilongu di San Sperate (Santoni e Bacco 2008, tav.15); qui, eccezionalmente, è reso lo spaccato ogivale della camera del nuraghe ed è proposto un “non finito” o meglio il nuraghe abbattuto e ristrutturato, come l’altare nuraghiforme di Serri con finestre a riquadri nei piani alti (Taramelli 1918 tav.1; Ugas 1980, tav. 11), e alcuni modelli da M. Prama. Una sola, minuta, riproduzione in bronzo documenta il dikasterion, la sala dei giudici: è un edificio rotondo con tetto conico (Fig. 4) che ricorda i modelli di urne a capanna circolare delle necropoli villanoviane. Proviene dall’area santuariale di S. Anastasia e mostra al culmine un eroe che liba con una coppa emisferica (Ugas 2009, fig. 21); forse è un’altra immagine dell’Aristeo sardo, o meglio, del figlio grecizzato in Kharmos, assimilabile a Dioniso (Ugas 2001, p. 90). Una notevole perizia occorreva anche per scolpire altri manufatti in pietra. In alcuni casi si può parlare ancora di arte, come per la grande testa taurina di Serri (Lilliu 1988, fig.93 a), e le testine d’ariete dei doccioni di Sedda Sos Carros (Fadda 1993a), mentre meglio si addice al lavoro di artigiani, il torchio per vino a torricella con vasca da Monte Zara di Monastir (Ugas 2001) e le vasca a coppa degli edifici termali già citati.
Gli elementi della metallurgia
Il numero ragguardevole di matrici di fusione (Becker 1984, pp. 163-208), di lingotti in rame e piombo e di oggetti in metallo rinvenuti nell’isola indicano un’intensa attività di metallurgia (Lilliu 1988; Contu 1997; Lo Schiavo 1986, 1990, 2002). Purtroppo non sono molti i reperti in giacitura primaria poiché per lo più risultano tesaurizzati in ripostigli. Definire quali siano gli oggetti pertinenti
al Ferro I, non è sempre agevole, ma la circostanza straordinaria di poter contare su tanti oggetti sardi in contesti chiusi come quelli delle tombe villanoviane è un sigillo archeologico da cui non si può prescindere. I materiali ordinari, come le brocchette fittili, portate dai Sardi e trasferiti insieme ad altri manufatti anche di natura simbolica nei contesti villanoviani del IX-VII secolo (Camporeale 1969;
Tore 1981b; Bartoloni G. e Delpino 1976; Gras 1985; Bartoloni G. 2002, 2009; Delpino 2002; Cygielman e Pagnini 2002; Maggiani 2002; Lo Schiavo 2002), sono oramai talmente numerosi che non è in alcun modo giustificabile un processo sistematico di decontestualizzazione dei bronzi sardi, e dunque un’attribuzione al Bronzo finale in quanto oggetti della “nonna” (Lo Schiavo 2002). È certo probabile che in alcuni ripostigli siano finiti anche oggetti degli antichi signori e difensori dei nuraghi
dell’età del Bronzo, ma è impensabile che nel IX-VII secolo, in un deserto culturale, i Sardi non sapessero o volessero più realizzare spade, pugnali, statuine, navicelle, e con esse le mirabilia architettoniche
vantate dai Greci.
Ripostigli
Occorre premettere che, allo stato attuale delle ricerche, nessuno dei contenitori fittili di panelle e di pezzi di lingotti ox hide utilizzati nei ripostigli può essere riconducibile, al Bronzo Recente, diversamente da quanto sostenuto dagli ottimi archeologi Franco Campus e Valentina Leonelli (1999); i più antichi appartengono a forme di passaggio dal Bronzo finale al I Ferro, e in genere sono connessi con depositi di fondazione di edifici immediatamente dopo la caduta dei nuraghi allo scorcio del Bronzo finale (capanna 1 di S. Anastasia), o con nascondigli di riserve di metallo realizzati proprio nel momento della grave crisi legata alla devastazione dei nuraghi (potrebbe essere il caso anche del tesoretto di Funtana Coberta. A giudicare dalla loro collocazione stratigrafica, diversi ripostigli vanno inquadrati all’inizio e alla fine del periodo Geometrico. All’alba del I Ferro vanno ascritti i depositi di fondazione sulla soglia della capanna o all’interno di ambienti riconsacrati, anche nuraghi, formati da panelle integre o frammentarie e di pezzi di lingotti ox hide contenuti in scodelloni e in olle come quelli della Capanna 1 di Santu Antine (Contu 1997, p. 703), delle già menzionate capanna 1 di Sant’Anastasia e dell’ambiente α di Funtana Coperta, dei nuraghi Flumenelongu di Alghero, Albucciu di Arzachena e Nuraghe Funtana di Ittiri (Contu 1997, pp. 701-709; Lo Schiavo 1999). A ripostigli con materiali di spoglio sono pertinenti i gruppi di statuine in bronzo di M. Arcosu di Uta (Lilliu 1966), strappati a templi dell’età geometrica agli inizi dell’Orientalizzante, e allo stesso periodo debbono risalire i depositi di rottami metallici di fonditori come quello documentato a Monte Idda di Decimoputzu (Taramelli 1915, coll. 89-97), con statuine o pezzi di statuine e non più pezzi di lingotti ox hide. Alla fine del periodo geometrico si colloca per la situazione stratigrafica e contestuale, il ripostiglio con i grandi bacini in bronzo e i lingotti di piombo e il dolio ricolmo di rottami di armi e attrezzi in bronzo, occultati all’interno di un pozzetto nella sala del consiglio di S. Anastasia (Ugas e Usai 1987, tavv. V; IX-X); è il momento in cui vengono abbandonate quasi tutte, se non tutte, le sale del consiglio. I materiali contenuti nei ripostigli sono prevalentemente in rame e bronzo. Altri ripostigli però (Abini e S. Anastasia) hanno restituito un consistente numero di lingotti in piombo. Altri analoghi manufatti plumbei provengono da un relitto del mare di Arbus (Ugas e Usai 1987) e da M.Olladiri di Monastir (Ugas 1985). Questo dato è pienamente plausibile con la notevole ricchezza di galena dell’isola. Insignificanti risultano invece nel periodo geometrico e anche più tardi i manufatti in ferro, oro e argento (Contu 1997, pp. 728, 729). Il ferro non veniva tesaurizzato a causa della difficile conservazione, ma sorprende che sia così poco attestato anche nei contesti della vita quotidiana.
Attrezzi e armi
Con le riserve comunitarie (metalli e altro) i santuari diventano le banche dei villaggi e accumulano consistenti ricchezze, per computare le quali si ricorre ai pesi da bilancia in pietra all’uso dei segni numerali (Ugas 1985; Ugas e Usai 1987, Contu 1997, pp. 702, 704). I pesi da bilancia si presentano in forme diverse: discoidale, a botticella, parallelepipeda, a campana a base rettangolare con appiccagnolo: risultano in pietra a S. Brai di Furtei, S. Anastasia, Monte Zara, M. Olladiri e nuraghe Asusa di Isili (scavo inedito Saba-Ugas); in bronzo da Forraxi Nioi e Abini; in piombo da Asusa (inedito). I segni numerali, ora geometrici (punti, trattini, barrette) ora letterari, appaiono oltre che nei lingotti in rame ox hide (contrassegni più antichi di origine sillabica egea), nelle panelle in rame di Forraxi Nioi, nei lingotti in piombo (Monte Olladiri, S. Anastasia), e incisi o impressi su recipienti fittili (M. Olladiri, M. Zara, S. Antine di Torralba) e su elementi architettonici (Cuccuru Nuraxi, inediti). Sono soprattutto i ripostigli che restituiscono gli attrezzi della vita quotidiana e delle armi. Qualche rapida considerazione sulle categorie e tipologie strumentali e sulle tante armi documentate in questo periodo. Spiccano le lunghe spade costolate che coronavano gli altari nei templi, ma talora anche provviste d’elsa e usate, come quelle formidabili di Villasor. Una delle 40 spade di questo sito mostra l’elsa cornuta come la spada costolata rinvenuta nella tomba monosoma, a cista litica rettangolare, di Senorbì (Taramelli 1931, pp. 78-82 ns), e come la spada sospesa sulle spalle dell’arciere bronzeo di S. Vittoria di Serri, in stile Abini (Lilliu 1966 p. 72,s, n. 21) che indossa lo stesso gonnellino a coda triangolare dei sacerdoti pugili di Monte Prama. Non mancano le spade di varia foggia, spesso simili a quelle impugnate dai guerrieri di bronzo, e sul finire del periodo le spade ad antenne, come quella di Ploaghe (Lilliu1966, 1988; Contu 1997). Tra i pugnali, fin dall’inizio del periodo appaiono i
tipi con manico ad elsa gammata (da Oliena: Contu 1997, fig. 128, 1; da Su Benatzu di Santadi: Lo Schiavo, Usai 1995, p. 164, fig. 13, 8-9), spesso fissati alla bandoliera di vari personaggi della bronzistica (Lilliu 1966). A questo periodo appartengono molti pugnali a base triangolare e ogivale. Per la cronologia sono significativi gli esempi di S. Anastasia di Sardara (Ugas e Usai 1987) e di Su Monte di Sorradile (Santoni e Bacco 2008). Le faretrine in miniatura ripropongono queste stesse tipologie dei pugnali utilizzati nella vita quotidiana, soprattutto nell’ambito dei sacrifici cruenti rituali. Tra gli attrezzi sono diffusi in particolare le asce a margini rialzati e le asce bipenni e piatte, scalpelli con immanicatura a cannone, e altri strumenti che documentano grande perizia nella lavorazione del legno (Lo Schiavo 1981). Si richiamano in particolare quelli datati al Geometrico dei già citati ripostigli di S. Anastasia e di Su Monte. Questo è anche
il momento in cui si diffondono nell’isola i grandi calderoni (Ugas e Usai 1987; Lo Schiavo 1987), prima con attacchi a spirale (S. Anastasia di Sardara e di su Bentigheddu di Oliena) e poi, verso la fine del periodo, con attacchi a fiore di loto. Come i tripodi, i thymiateria e altri manufatti in bronzo legati ai cerimoniali nei templi, questi calderoni derivano da esperienze metallurgiche cipro-fenicie. Nei templi si trovano con grande frequenza i bottoni conici e le navicelle in terracotta e in bronzo, offerte alle divinità. Spesso questi oggetti varcano le sponde del Tirreno, controbilanciando l’arrivo dei monili in ambra (Lo Schiavo 1981b; Fadda 2002) e di molti tipi di fibule non locali (Lo Schiavo 1978, 2002; Contu 1997; Macnamara 2002). Più incerti i vettori per le perle in cristallo di rocca e pasta vitrea, forse giunte tramite Fenici e Greci. Difficile determinare la provenienza dei pochi oggetti in oro che potrebbero essere stati mediati dai Fenici e dai Greci, ma anche attinti direttamente alle fonti, come gli altri precedenti prodotti, dagli stessi Sardi. Per questo genere di materiali di pregio si richiamano in particolare i contesti funerari di Antas (Ugas e Lucia 1987) e quelli sacri di Sedda Sos Carros (Lo Schiavo 1981; 1981a), Su Benatzu (Lo Schiavo e Usai 1995) e Su Mulinu (Ugas 1992).
Brevi considerazioni
Attraverso gli scavi di Sulci (in ultimo Bernardini 2007b) e di altri siti costieri isolani come S. Imbenia, cominciano a definirsi le prime relazioni tra i Sardi e i Fenici, mentre d’altro canto emergono sempre meglio gli intrecci tra l’isola e le altre terre mediterranee attraverso le analisi di F. Lo Schiavo (2003, pp. 152-161; Lo Schiavo et alii 2008), i lavori di G. Tore (1981), M. Gras (1985), G. Lilliu (1988. pp. 423-429), E. Contu (1997, pp. 699- 730); G. Bartoloni (2004, pp.184-191) e infine i contributi in Etruria e Sardegna. Da questo quadro dei rapporti con l’Etruria risalta sempre più il contributo offerto dai Sardi (Iliesi, Balari e Corsi) allo sviluppo della I fase Villanoviana a partire dalla diaspora dei capi tribali nuragici. Iniziano a definirsi meglio i contatti con l’Italia meridionale, in particolare la Campania (D’Agostino 1974, Lo Schiavo 1994; Bartoloni 2004), anticipati alle soglie del I Ferro dalle scorrerie nelle Lipari. Tra il IX e il secolo VII, emerge altresì l’ intraprendenza marinara dei Sardi anche sulle lunghe percorrenze, talora nel ruolo di apripista per i Fenici. Infatti le loro merci non solo percorrono i mari verso Sud in direzione di Cartagine e verso Creta ad est ma raggiungono anche l’estremo ovest in direzione di Cadice (Ruiz Mata e Cordoba Alonso 2005, pp. 297-300) e di Huelva (Gonzales De Canales Cerisola et alii 2004, tavv. XXI, LX), sostenendo così il mito di Norax (Ugas 2006, pp. 24-29).
6. Il Periodo Orientalizzante (730-600 A.C.)
Nell’Orientalizzante antico continua, ma affievolendosi, la presenza di manufatti sardi in quasi tutte le regioni mediterranee che hanno conosciuto i loro manufatti nel periodo geometrico, come evidenzia la diffusione della ceramica sarda a falsa cordicella anche oltre l’isola. Nella II fase del periodo emerge un rapporto privilegiato con l’Etruria, ma con direttrice invertita: sono gli Etruschi che viaggiano verso la Sardegna influenzando notevolmente la produzione fittile locale (M. Olladiri di Monastir, Santu Brai di Furtei, Piscu di Suelli) e mediando le nuove esperienze maturate con le città greche della penisola. I Sardi subiscono anche l’intraprendenza commerciale e politica dei Fenici insediati sulle coste, che tendono a conquistare culturalmente e politicamente porzioni del territorio interno, segnatamente nell’area sulcitana (Bartoloni P. 2003; Bernardini 2005, 2007; Bartoloni e Bernardini 2004).
6.1. Orientalizzante antico (730-670 a.C.)
Nel complesso l’edilizia è poco nota. Come si evince dagli scavi, già menzionati di Su Nuraxi, Sant’Imbenia, Bangius di Furtei sono ancora in uso gli ambienti circolari con vasca a coppa. Nel Campidano continua l’uso di case ad ambienti rettangolari con muri di mattoni di fango documentata negli insediamenti di San Sperate, Santu Brai di Furtei, Monti Leonaxi di Nuraminis (Ugas e Zucca 1984) e Piscu di Suelli (Santoni 2002). Non si hanno informazioni sulle aree funerarie e neppure si sa di templi edificati in questo periodo. Continua la frequentazione dei pozzi sacri (Sant’Anastasia; Cuccuru Nuraxi) e dei templi nuraghe (Su Mulinu) e solo dopo quest’età cessa l’utilizzo del c.d. “pozzo votivo” di S. Anastasia (Taramelli 1918). All’ambito sacro è forse da ascrivere il vano quadrangolare di S. Brai-Furtei, frequentato ancora nella fase successiva; ha restituito i pesi da bilancia che hanno consentito di risalire all’unità ponderale nuragica di gr. 5,2/5,5 (Ugas 1985, 1986, 1989). I contesti più significativi, riconoscibili dalla presenza della ceramica a falsa cordicella, sono quelli del citato pozzo “votivo” di Sant’Anastasia (Taramelli 1918), Monte Olladiri vetta s. 158 (Ugas 1985), Sant’Imbenia (Bafico 1986, 1991; Bafico et alii 1995, 1997), Piscu di Suelli (Santoni 2002), Cuccuru Nuraxi di Settimo San Pietro (Atzeni 1987, tav. IX).
6.2. La Ceramica
In questo momento ricorrono i vasi d’impasto a superfici ingubbiate e lucidate con decoro a falsa cordicella e talora con segni impressi o incisi di tipo alfabetico (M. Olladiri: Ugas 1985). Le forme più comuni sono le brocche askoidi a largo collo e a bocca ondulata tipo S. Anastasia, talora con anelli in rilievo al collo, come spesso si osservano in brocchette sarde da Vetulonia e brocchette askoidi dal collo stretto a corpo ellissoide tipo Monte Cao (Ibid., tav. II, 1), le anfore ad alto collo con anse a gomito rovescio tipo Cuccuru Nuraxi (Atzeni 1987), gli askoi a testa bovina tipo S. Brai (Ugas 1985, tav. XVI), mentre invece vengono meno altre forme e in particolare le anfore piriformi. La ceramica d’impasto sovradipinta, in particolare il secchiello a chévrons e la brocca askoide a bocca trilobata da Sant’Anastasia (Ibid., tav. II, 5) risentono del gusto decorativo della ceramica euboico-cicladica (Ugas 1985, 1995). A Su Mulinu sono presenti belle lucerne ornate a falsa cordicella con protomi zoomorfe e anse a maniglia.
6.3. Manufatti in bronzo
Nel complesso, la produzione bronzistica risente sempre dell’influsso fenicio. Continua la produzione dei bronzi figurati con le splendide immagini dello stile IV di Uta (Lilliu 1997). Ora si diffondono diverse varianti di lucerne: la lampada bilicne da Mandas (Lilliu 1966, p. 412, n. 299); a navicella con castello-torre; a navicella con 4 bracci, torricella sovrastante e appiccagnolo tipo Mores (Lilliu
1966, p. 403, s, n. 290); a navicella con 4 bracci e appiccagnolo tipo Vetulonia (Lilliu 1966, nn. 286, 288) documentate ora anche a Su Monte (Santoni 2008, tav. IX, 2-3). In questo periodo circolano diversi contenitori pregiati, come la brocchetta askoide in bronzo con palmetta (imitazione fenicia) da nuraghe Ruju di Buddusò (Ugas 1985, tav. II, 2), simile alla citata brocchetta fittile di Monte Cao, e l’askòs con protome bovina da Sedda sos Carros (Lo Schiavo 2002, fig. 9, tavv. II-II).
6.3.1. Armi e attrezzi
È da supporre che diversi attrezzi e armi già attestati nel periodo geometrico persistano in questo memento, considerato che vari ripostigli, come quelli già citati di Sant’Anastasia e di Su Monte risalgono proprio all’inizio di questa fase. Occorre rilevare tuttavia che la produzione sarda in bronzo sembra già sovrastata dai prodotti dell’artigianato greco e fenicio. In questo periodo, infatti, i centri indigeni sono raggiunti da una consistente quantità di ceramica fenicia ed euboico-cicladica (Bafico 1986; Bafico et alii 1995, 1997; Bernardini 1981- 82, 2008; Bernardini e Tronchetti 1985) e da bronzi figurati, bacini, tripodi e thymiateria in bronzo di imitazione fenicio-cipriota (Lilliu 1988; Tore 1986; Barreca 1986a; Lo Schiavo et alii 1985; Ugas e Usai 1987). D’altra parte continuano a raggiungere i lidi dell’Etruria settentrionale e meridionale diverse navicelle sarde. L’askos a testa bovina dalla necropoli bolognese di Benacci II risente dello stile decorativo a falsa cordicella (Ugas 1986). Nella penisola Iberica la ceramica a falsa cordicella nuragica perviene, non diversamente dal vasellame geometrico, nella Huelva (Gonzales De Canales Cerisola et alii 2004, tav. XXI, LX. 2).
6.4. Orientalizzante medio ed evoluto (670-600a.C.)
La limitatezza degli scavi in aree abitative e la totale assenza di contesti funerari grava pesantemente sulla conoscenza dei quadri archeologici di quest’età, così come di quella successiva. In questo periodo gli insediamenti diminuiscono vistosamente di numero e si osserva la tendenza all’inurbamento, specie nelle aree campidanesi come quelle di S. Brai e Bangius di Furtei, San Sperate (Ugas e Zucca 1984; Ugas 1985, 1989, 1993). I complessi più significativi, oltre a quelli dei siti già citati di Furtei e di San Sperate, sono quelli di Monti Leonaxi di Nuraminis, Tuppedili di Villanovafranca (Ugas e Zucca 1984), Piscu di Suelli (Santoni 1990, 1992, 2002) e Corti Auda di Senorbì (Usai L. 1986). L’edilizia abitativa di questo periodo, al pari di quella della successiva fase arcaica, è nota esclusivamente da ricerche d’emergenza condotte nell’abitato di San Sperate e nei siti di Santu Brai e Bangius di Furtei. Le case, a vani quadrangolari, mostrano sistematicamente basamenti in muratura con soprastante levato in mattoni di fango. Anche a M. Leonaxi, Tuppedili e Cuccuru Nuraxi sono stati osservati, ma in superficie, frammenti di mattoni di fango pertinenti a case presumibilmente della stessa tipologia (Ugas e Zucca 1984).
6.5. Manufatti
Nella produzione fittile locale prevale la ceramica sub-geometrica d’impasto, spesso a decoro metopale inciso e impresso a stampiglia (cerchielli, motivi a x) comprendente brocche askoidi a bocca trilobata, brocche trilobate, secchielli, attingiti fiasche lenticolari a quattro maniglie, vassoi coperchi a prese triangolari (tipo Monte Olladiri: Ugas 1985, tavv. X-XI). Diventano consistenti sia la ceramica d’impasto e tornita sub-geometrica sovradipinta, come emerge dai ritrovamenti di M. Leonaxi, S. Brai (Ugas e Zucca 1984; Ugas 1985) sia la ceramica tornita locale a decorazione geometrica dipinta, in particolare brocche, askoi crateri da Tuppedili, S. Brai e Bangius di Furtei (Ugas e Zucca 1985) e Piscu- Suelli (Santoni 1992, 2002). Nel già citato sacello di Su Mulinu, sono attestate numerose lucerne di impasto a spalla alta, a pareti ruvide irregolari, con o senza protome zoomorfa. Prosegue la produzione di bronzi figurati e di navicelle in stile “orientalizzante”, piuttosto manieristiche (Lilliu 1966), in prevalenza a scafo trapezoidale provviste di maniglia con anello tipo Falda della Guardiola di Populonia (Lilliu 1966, n. 277). I fittili di impasto sardi discendono chiaramente da modelli provenienti dell’Etruria meridionale sia per quanto attiene le forme (attingitoi, secchielli, piatti e fiasche), sia per quanto riguarda la decorazione a stampiglia e il trattamento degli impasti e delle superfici ingubbiate rosse. Raggiungono gli insediamenti dell’isola numerosi vasi in bucchero e ceramiche italo-corinzie. Notevole anche la presenza di vasellame fenicio negli abitati di M. Olladiri, M. Leonaxi, S. Brai e San Sperate (Ugas e Zucca 1984; Ugas 1989). Nell’area sulcitana si attiva un intenso processo di osmosi tra la cultura locale e quella fenicia, e non è da escludere che sia stata adottata la sepoltura ad incinerazione anche da parte della popolazione sarda a M. Sirai, Pani Loriga, a S. Giorgio di Portoscuso e a Bithia (Bartoloni P. 2003; Bernardini 2005, 2007, 2008; Bartoloni e Bernardini 2004).
7. Il periodo arcaico (600-510 a.C.)
La fondazione nella prima metà del VI secolo delle colonie di Massalia nel Midi francese, di Alalia in Corsica, oltre che dell’emporio di Gravisca presso Tarquinia, da parte delle popolazioni greco orientali e in particolare della città di Focea, spezzarono il duopolio etrusco-fenicio sul Tirreno, favorendo l’afflusso in Sardegna di prodotti idee ed anche, probabilmente, uomini dalle coste dell’Asia Minore. L’interesse degli Joni per la Sardegna risulta chiaramente in diversi passi delle Storie di Erodoto e le ricerche tendono a confermare, piuttosto che a smentire, una possibile presenza di Greci, almeno in aree portuali, libere e non ancora controllate dai Fenici, in particolare Cagliari, porta del Campidano agrario (Ugas e Zucca 1984; Zucca 2002) e di Olbia (D’Oriano 2000), scalo fondamentale, come Alalia, per la navigazione dei Sardi verso l’Etruria e l’arco ligure-provenzale. Nella seconda metà del secolo la pressione di Cartagine sull’isola diventa fortissima e prima la caduta di Alalia intorno al 540 a seguito della vittoria cadmea sul Mare Sardonio (Erodoto) e la guerra portata in Sardegna prima da Malco e poi dai Magonidi Asdrubale e Amicare pesarono fortemente sulle linee di sviluppo della cultura nell’isola. Cartagine vittoriosa, controllando i mari attorno all’isola, necessariamente controllava e filtrava le novità provenienti da oltre mare. Già intorno al 540 risultano abbandonati l’insediamento di Cuccuru Nuraxi di Settimo e altri centri dell’hinterland cagliaritano a seguito dell’incursione di Malco. Sul versante archeologico occorre sottolineare che questo è un periodo ancor meno noto del precedente. Gli insediamenti investigati sono sostanzialmente gli stessi della fase precedente vale a dire San Sperate, S. Brai e Bangius di Furtei, Monti Leonaxi di Nuraminis, M. Olladiri, Tuppedili, Cuccuru Nuraxi, Piscu di Suelli e inoltre Bangiu di Mandas (Ugas e Zucca 1984) e Corti Auda di Senorbì . I manufatti di questo periodo trovati a Su Nuraxi di Barumini e S’Uraki di San Vero Milis ed in altri siti, non contribuiscono ad incrementare di molto la conoscenza generale. Anche l’edilizia è sostanzialmente la stessa, con edifici a pianta rettangolare e mattoni di fango nelle case campidanesi; ora è nota soprattutto a San Sperate un abitato dai connotati oramai urbani con vie a sviluppo ortogonale, forni per la ceramica, pozzi e condotte idriche (Ugas 1982, 1993). Nella ceramica locale la produzione d’impasto tende a lasciare il posto quasi completamente a quella tornita e dipinta a bande, fortemente influenzata dal coevo vasellame greco-orientale, in particolare coppe imitanti quelle tipo B2 Villard. Nei centri indigeni le ceramiche d’importazione greco-orientali tendono a imporsi su quelle fenicie, comunque sempre abbondanti (Tore 1978; Ugas 1982; Ugas e Zucca 1984; Tronchetti 1982, 1986), ma non mancano il vasellame etrusco in bucchero e i prodotti etrusco-corinzi. A San Sperate pervengono anche materiali della Laconia, corinzi e attici. Anche i pochi manufatti in bronzo risentono degli influssi greco-orientali, come si evince da una coppa con piede a tromba da S. Brai di Furtei (Ugas e Zucca 1984). Raggiungono ancora le aree costiere della penisola i bronzi sardi, come documentano le navicelle rinvenute a Gravisca (Lilliu 1971) e nel tempio di Era Lacinia a Crotone (Spadea 1993; Lilliu 1997).
Nelle immagini: l'altare-vasca di Su Mulinu e la capanna con vasca di Sa Sedda e sos Carros
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