Al CERN l’esperimento ASACUSA ha prodotto per la prima volta un fascio di atomi di anti-idrogeno. Il risultato, pubblicato su Nature Communications, fa compiere un passo verso la comprensione del mistero dell’antimateria. Il commento del Presidente dell’INFN Fernando Ferroni.
di Giulia BonelliL’esperimento ASACUSA al CERN. Crediti: Yasunori Yamakazi
Un nuovo successo è arrivato ieri per il CERN di Ginevra, dove l’esperimento ASACUSA è riuscito a produrre e intrappolare 80 atomi di anti-idrogeno. È la prima volta che in laboratorio si riesce a ottenere qualcosa di simile, e il risultato è un passo significativo verso la comprensione della natura delle antiparticelle.
Si tratta dei mattoni che costituiscono uno dei più grandi misteri della fisica moderna: l’antimateria, formata da particelle simili a quelle che costituiscono la materia ordinaria, ma con carica di segno opposto.
Sull’antimateria si sa pochissimo, e quello che si sa genera un vero e proprio rompicapo, chiamato dai fisici “asimmetria”: la disparità tra l’Universo dopo il Big Bang, in cui materia e antimateria furono prodotte in eguale quantità, e l’Universo di oggi, dove dell’antimateria non c’è più traccia. Com’è possibile? Dove sono finiti gli antiatomi presenti diversi miliardi di anni fa?
L’esperimento Asacusa è nato proprio per rispondere a queste domande. Acronimo di “Atomic Spectroscopy And Collisions Using Slow Antiprotons”, il suo obiettivo è appunto indagare le differenze fondamentali tra il comportamento della materia e dell’antimateria. Ma per far questo, il primo passo era produrre e trattenere le antiparticelle, che come si è detto non si trovano in natura.
Ora i fisici del CERN, gruppo internazionale tra cui ci sono anche degli italiani dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ci sono riusciti.
“Ancora non sappiamo se le antiparticelle obbediscano o meno alle stesse leggi dell’elettromagnetismo e della gravità applicabili alla materia” dice Fernando Ferroni, presidente dell’INFN. “Aver prodotto un fascio di anti-idrogeno permetterà di effettuare finalmente dei test per verificarlo”.
Il fascio è stato originato in un “tubo” lungo circa tre metri e mezzo, 2.7 metri a valle della sorgente (dove l’influenza del campo magnetico usato inizialmente per produrre antiatomi è lieve). I fisici hanno ottenuto atomi di anti-idrogeno “mescolando” antielettroni (positroni) e antiprotoni a bassa energia prodotti dal deceleratore di antiprotoni, uno degli anelli di stoccaggio al laboratorio di Ginevra.
“In questo caso non si può parlare propriamente di scoperta” prosegue Ferroni “perché atomi di anti-idrogeno erano già stati prodotti in precedenza. La grande novità consiste però nel fatto che è la prima volta che potremo confrontare atomi di anti-idrogeno con i loro corrispettivi di idrogeno”.
Perché proprio questo elemento? Come esordisce lo studio con gli esiti dell’esperimento del CERN, pubblicato su Nature Communications, “l’anti-idrogeno, un positrone legato a un antiprotone, è l’antiatomo più semplice”. Per questo può essere usato più facilmente per provare a confrontare le caratteristiche di materia e antimateria.
Infatti in base alle previsioni gli spettri dell’idrogeno e dell’anti-idrogeno dovrebbero essere identici, quindi l’individuazione di ogni minima differenza potrebbe essere fondamentale per risolvere il mistero dell’antimateria. Mistero su cui non sta lavorando solo il CERN: indagini sull’antimateria vengono fatte anche direttamente nello spazio. È il caso di AMS, lo spettrometro che nel 2011 ha raggiunto la Stazione spaziale internazionale proprio a caccia di antimateria.
Viene spontaneo chiedersi se i dati ottenuti dal CERN possano essere utili anche in questa ricerca nello spazio. “È ancora presto per dirlo” spiega Ferroni. “Integrare i risultati del CERN con quelli di AMS sarebbe meraviglioso, ma per poterne parlare bisognerebbe avere quantità di anti-idrogeno maggiori: tra 80 atomi e un numero di Avogadro passano decisamente molti ordini di grandezza”
Non resta che proseguire, un gradino per volta, nel misterioso mondo dell’antimateria. Conclude infatti Ferroni: “È come una scalinata: per vedere risultati, bisogna salirla tutta”.
Fonte: Media INAF | Scritto da Giulia Bonelli