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Il primo NO

Da Paterpuer @paterpuer
Qualche sera fa, dopo cena, Samuele è andato in cameretta per giocare. Lo abbiamo chiamato per una sorpresa: gli avevamo preparato un paio di fragole.
Lui è venuto verso la cucina, io gli ho detto: "Samu per favore spegni la luce in camera tua", lui mi ha guardato fisso e dritto negli occhi e ha detto: "No". Poi l'ha ripetuto, guardandomi sempre negli occhi, altre 2 o 3 volte.
Io ero incredulo e gioioso. Incredulo perché non me lo aspettavo, gioioso perché in questo modo Samu segnalava la sua crescita.
Fino a quella sera lì i "no" di Samuele erano capricci o lamenti. Con quella opposizione ferma e - a suo modo - divertita, ha definitivamente compiuto un gran passo avanti nella presa coscienza di sé.
Uno degli esperimenti più divertenti è quello della macchia rossa (o comunque colorata) sul naso. Fu condotto da Lewis e Brooks-Gunn alla fine degli anni Settanta e consisteva nel porre di fronte a uno specchio dei bambini fra i 9 mesi e i 2 anni di età. Nell'esperimento (l'analisi delle risultanze avvenne su videoregistrazioni) le mamme dei bambini dipinsero di rosso il naso di questi ultimi, per riportalri poi di nuovo di fronte agli specchi. Nel caso in cui i piccoli avessero toccato il proprio naso (e non tentato di toccare il naso riflesso nello specchio) si sarebbe concluso che sì: c'era una forma di autoriconoscimento. Nel celebre esperimento (replicabile da tutti i genitori o nonni a casa) l'età dell'autoriconoscimento iniziava a partire dai 15-18 mesi.
La questione della coscienza di sé è dibattuta da tempo immemore, ovviamente dai filosofi ma anche da psicologi e pedagogisti. Le teorie che si sono susseguite hanno - al solito - tutte un fascino speciale.
Interessante la prospettiva interazionista in base a cui l'immagine di sé è un qualcosa che dipende anche dal modo in cui l'ambiente percepisce il bambino. Interiorizzare, appropriarsi, assimilare gli schemi di comportamento degli altri, replicare il modo in cui questi agiscono aiuta i piccoli a costituire la coscienza di sé.
Ma torniamo al "no" di mio figlio. Samu ha compiuto 2 anni il 15 maggio, pochi giorni fa. Si tratta dell'età magica in cui la potenzialità del "no" viene disvelandosi.
Dire "no" a qualcosa significa opporre una volontà, quindi un punto di vista, una identità. Per dire "sì" a qualcosa che è proposto non importa avere una volontà, un punto di vista e in ultima analisi una identità. Siamo forse su un piano eccessivamente speculativo ma speculare a volte è utile.
In questa età di crescita frenetica i bambini sperimentano una continua ristrutturazione della realtà e dei modi di interagire con il mondo. Camminare, mangiare da soli, "parlicchiare"... La progressiva indipendenza nel compiere piccole e grandi azioni rende un'immagine positiva si sé.
Cito volentieri la Oliverio Ferraris (autrice con cui non sempre mi sento allineato): «Non tutti i "no" del bambino hanno lo stesso significato. Solo alcuni sono atti di sfida e di disobbedienza, molti altri sono segnali di un desiderio di partecipazione. In altre parole, nella mente di un bambino di 2, 3 anni - il cui linguaggio non può ancora esprimere pienamente ciò che sente - il "no" rappresenta spesso l'inizio di una conversazione, non la fine. Dietro a un "no" ci può essere un'intera frase: "No, anch'io ho qualcosa da dire", "Basta col passeggino, voglio camminare", "Ho bisogno di più tempo", "Spiegati meglio, ho paura", "Perché non ce ne andiamo da questo posto noioso". I bambini vogliono il controllo, ma vogliono anche coinvolgerci. Il "no" è uno dei mezzi più efficaci che hanno a disposizione per suscitare delle reazioni. Se poi queste reazioni sono negative non importa, sono comunque interessanti per loro che stanno scoprendo il mondo. Molte delle incomprensioni che a questa età si verificano tra grandi e piccini potrebbero essere evitate se i grnadi non prendessero alla lettera i "no" dei bambini, ma prestassero attenzione ai segnali».
Ferraris, Sarti e Conti proseguono poi specificando a che tipo di segnali si deve prestare attenzione: contesto, umore, tono, linguaggio del corpo.
Il modo in cui si legge e si reagisce al "no" è quindi fondamentale per gestire al meglio (per i bambini ma perché no, anche per noi genitori) le situazioni di "opposizione".
In parole povere: "la disobbedienza, se c'è, è negli occhi di chi guarda". Non è proprio così ma questa è una buona prospettiva da assumere per oltrepassare la pigrizia. Sì, la pigrizia che spesso fa guardare solo la bizza, la pigrizia (io me la riconosco) che impedisce di compiere un piccolo sforzo per affrancarsi dall'agonismo me-mio figlio per capire invece di partecipare alla lotta.
L'altra sera - tanto per aggiungere variabili all'algoritmo - Paola, mentre io guardavo con orgoglio Samuele, se nè uscita con una frase che aveva tutto l'ardire dell'imperativo: "Non vorrai mica fargliela passare lisciscia?!?". Io, che come tutti debbo anche tenere la barca pari, ho dovuto far valere l'autorità con Samuelino e fare la voce grossa, ma - sinceramente - credo che il sorriso che avevo dentro rendesse davvero poco convincente il tutto.
Si, vabbè, ma come fare di fronte ai "no"? Ok, qualche suggestione: personalmente credo che l'atrtitudine (e l'abitudine) alla spiegazione sia di fondamentale importanza, quindi suggersisco di tentare sempre di far comprendere le ragioni di un'imposizione dall'alto.
A me piace proporre alternative ma soprattutto inventare storie, qualche tempo fa, in piena crsi di "moccio", quando la sola vista dell'aerosol scatenava reazioni isteriche mi sono inventato la "polvere delle stelle". A lume di candela le goccioline dell'aerosol si sono trasformate in polvere di stelle da annusare e mangiare, da lì è diventato tutto più facile.
Le regole però sono importanti, anche per rassicurare i bambini di fronte a una realtà troppo vasta per poter essere compresa da soli. Quello che non si deve fare è cadere nel meccanismo del "se fai... allora puoi...". Così le regole si depotenziano in quanto tali. Le regole debbono diventare parte normale della vita, con un senso intrinseco, ridurre il tutto a un meccanismo di contrattazione significa comunicare che (e formare a) il motivo per cui si accetta la volontà delle figure di riferimento è semplicemente avere una wild card per fare i cazzi propri.
No, così non va, come direbbe Samuele: "Queste cose non si fanno".

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