Inizio con una piccola precisazione ad uso di chi legge: non ho alcuna antipatia personale per Giuseppe Civati, il “dissidente” Pd che da alcuni mesi conduce dal suo blog una battaglia che, a suo dire, è volta al cambiamento del Partito democratico. Peraltro, a voler mette i puntini sulle i, lo leggo da qualche tempo prima che i suoi J’accuse diventassero di dominio pubblico, e fino a qualche anno fa – quando del grande establishment della politica italiana sapevo meno ed ero un po’ più ingenuo – le sue parole mi avrebbero entusiasmato.
Oggi no, e per spiegare perché prendo in prestito le parole di Stefano Cappellini, giornalista, che in un post di quasi tre mesi fa scrive di quelli che chiama «i diversi di sinistra» e dice:
Sfruttando l’alibi di una sedicente collocazione di campo a sinistra è cresciuto un pool di professionisti che dell’avversione e della critica feroce al Pd hanno fatto un mestiere. Sempre cercati e valorizzati dai media perché la dichiarata appartenenza alla famiglia della sinistra rende più notiziabili le loro prese di posizione, caratterizzate da un tasso di dissenso dalla presunta propria parte politica che sfiora il cento per cento.
[...]
La chiave di lettura dell’antipatia della sinistra è un’analisi politologica di successo e di immediata fruibilità, ma prima ancora che una analisi è un’esca emotiva: esistono frotte di (e)lettori che non aspettano altro che sentirsi dire che la sinistra è brutta e cattiva da un tale che si dichiara di sinistra, tanto quanto è pieno di sinistrorsi di bocca buona che non aspettano altro che di vedere il medesimo spettacolo replicato a destra
Ora, ovviamente la collocazione di Civati non è «sedicente», né lui può essere definito uno che «si dichiara di sinistra» senza esserlo, ma per il resto credo che la descrizione di Cappellini sia calzante: il filone dello smarcamento da un partito che fino a ieri aveva incubato la tua carriera politica a sinistra ha storicamente avuto grande fortuna (si pensi ai riposizionamenti di Veltroni e D’Alema, casi celebri in una miriade di svolte e scissioni).
Com’è altrettanto scontato, cambiare idea non è mai vietato, nemmeno in politica. Se nessun esponente tastasse la base del partito in cerca di mugugni e lamentele sarebbe la dialettica democratica a farne le spese. Civati, però, va oltre, e i suddetti mugugni li amplifica fino a farli diventare grida di dolore.
Esagera, nelle ultime ore, quando sostiene che Marino, il candidato sindaco a Roma, ha trionfato perché era per Rodotà Presidente e si è detto favorevole all’apertura al Movimento 5 Stelle – riducendo di fatto il successo del Pd alla catechesi martellante dei temi che ha fatto propri nelle ultime settimane. Sbaglia – secondo me – scrivendo «nessuno nota che il Pd ha preso meno della metà dei voti del 2008, a Roma, quando poi perse», come se l’importante adesso fosse non gioire, non concedere nulla a un Pd che si è alleato coi cattivi e quindi di cose buone, per definizione, non può farne.
Civati dice che i meccanismi decisionali e le regole del partito vanno cambiati, che la base non ne può più, che Occupy Pd e che Rodotà, e ce lo ripete sei-sette volte al giorno. Tutto accettabile e in parte condivisibile, ok, ma quando arriva la pars costruens? Mi sbaglierò, ma a me la sua sembra una critica di maniera che è più propria di qualcuno a cui la sinistra sta poco o nulla a cuore. Il problema di uno che quando si vince non esulta, insomma.
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