La crisi europea e il ruolo del sistema finanziario
Discorso di Vítor Constâncio, Vicepresidente della BCE, alla conferenza presso la Bank of Greece riguardo “La crisi dell’eurozona”.
Atene, 23 Maggio 2013
traduzione Vocidallestero
Introduzione
Vorrei iniziare ringraziando la Bank of Greece per avermi invitato a questa importante conferenza in presenza di molti prestigiosi ricercatori.
Ci sono, naturalmente, molti racconti e interpretazioni riguardo la maniera in cui la crisi si è manifestata nell’eurozona. Per alcuni, questa è soprattutto una storia di politiche fiscali inadeguate e debito sovrano eccessivo; per altri, è principalmente una storia di perdita di competitività, causata da costi del lavoro incontrollati; e per alcuni altri è essenzialmente una classica crisi da bilancia dei pagamenti in un regime di tassi di cambio “perfettamente fissi”. Negli anni più recenti, si è diffusa anche il punto di vista di una crisi bancaria, combinata con una crisi dei debiti sovrani per creare una storia di eccesso dei due debiti.
Naturalmente, c’è un po’ di verità in tutte queste ricostruzioni, come c’è da aspettarsi data la complessità e l’interdipendenza dei fattori di una grande crisi internazionale.
Ma, più che cercare di discutere una interpretazione globale della crisi dell’eurozona, preferisco esplorare 2 prospettive:
- primo, quali sono state le cause e i fattori scatenanti alla radice della crisi?
- secondo, che ruolo ha giocato la crisi finanziaria internazionale, cominciata negli USA, nell’innescare la crisi europea?
La prima domanda è importante per identificare le possibili carenze nella progettazione dell’unione monetaria che hanno bisogno di essere corrette per evitare crisi future. La mia opinione è che il principale fattore scatenante è da ricercarsi nel settore finanziario, in particolare in quelle banche che hanno fatto da intermediari per l’immenso flusso di capitali verso i paesi periferici, che ha creato sbilanciamenti divenuti insostenibili a seguito del “sudden stop” causato dalla crisi internazionale e dalla brusca revisione delle valutazioni del rischio che questa ha causato.
La seconda domanda è utile per comprendere se la costruzione dell’unione monetaria sia sufficiente per assicurare una graduale correzione delle vulnerabilità e evitare una crisi, nel caso in cui lo shock internazionale non fosse avvenuto. Si potrebbe speculare che, senza influenze esterne, l’eurozona avrebbe potuto superare gradualmente le sue debolezze con un processo di ribilanciamento interno. Non potremo mai essere certi di questo. Fortunatamente, questa domanda è meno significativa della prima.
Le cause alla radice della crisi
La storia più diffusa
Cominciamo con la prima prospettiva riguardo le cause. La più vecchia narrativa della crisi, progressivamente corretta dagli accademici ma ancora popolare tra alcuni segmenti dell’opinione pubblica, recita all’incirca così: Non c’era niente che non andasse con il progetto iniziale dell’unione monetaria europea, e la crisi è scoppiata per lo più perché diversi paesi periferici non hanno rispettato quel progetto – in particolare le regole fiscali e il Patto di Stabilità e Crescita – generando una crisi di debito sovrano. Questa è la storia “il problema è essenzialmente fiscale”, che può essere facilmente connessa ad altre 2: l’indisciplina fiscale ha portato a un surriscaldamento dell’economia, l’aumento di salari e prezzi ha implicato una perdita di competitività, e questo ha portato alla crisi da bilancia dei pagamenti.
Nonostante questa sia una storia internamente coerente, non è corretta, specialmente per quel che riguarda il fattore scatenante della crisi.
Anzitutto, non c’è una forte correlazione tra il rispetto del Patto di Stabilità e Crescita di un membro dell’eurozona prima della crisi e il relativo spread richiesto dai mercati finanziari oggi. Per esempio, Germania e Francia non hanno rispettato tale Patto nel 2003-2004; mentre Spagna e Irlanda lo hanno rispettato più o meno pienamente fino al 2007.
In secondo luogo, non c’è stato un aumento uniforme nell’indebitamento pubblico durante i primi anni della valuta comune nei paesi ora sotto pressione dei mercati finanziari.
Infatti, in certi paesi il debito pubblico è decresciuto, e in qualcuno è diminuito sostanzialmente. Per esempio, tra il 1999 e il 2007, il debito pubblico spagnolo è passato dal 62,4% del PIL al 36,3% del PIL. In Irlanda, nello stesso periodo, è diminuito dal 47% al 25% del PIL. Per quanto a livelli relativamente alti, il debito pubblico è diminuito anche in Italia (dal 113% al 103,3% del PIL) ed è aumentato solo di poco in Grecia. Comunque, negli ultimi due casi, il livello era già in effetti molto superiore al 60% fissato dal Patto di Stabilità e Crescita.
Riconsiderando il settore bancario
Penso quindi che, per avere una storia più accurata riguardo le cause della crisi, dobbiamo guardare non solo alle politiche fiscali: gli squilibri si sono originati per lo più nella crescente spesa del settore privato, finanziata dal settore bancario dei paesi debitori e creditori.
Come mostra la slide 1, al contrario dei livelli del debito pubblico, il livello del debito privato è aumentato nei primi 7 anni dell’euro del 27%. L’aumento è stato particolarmente pronunciato in Grecia (217%), Irlanda (101%), Spagna (75,2%), e Portogallo (49%), tutti paesi che sono stati sottoposti a grandissimo stress durante la recente crisi. La crescita repentina del debito pubblico, d’altra parte, è iniziata solo dopo la crisi finanziaria. Nel corso di 4 anni, i livelli del debito pubblico sono aumentati di 5 volte in Irlanda e di 3 in Spagna.
Da questa prospettiva, il rapido incremento dei livelli di debito pubblico deriva dal collasso delle entrate fiscali e dalle spese sociali, che sono aumentate durante la recessione quando sono stati attivati gli stabilizzatori automatici (es: cassa integrazione, ndt). Pericolose ripercussioni dal sistema bancario al debito sovrano, che sono emerse dopo l’inizio della crisi finanziaria, hanno ulteriormente indebolito i conti fiscali.
Da dove venivano i finanziamenti che hanno fatto esplodere il debito privato? Un aspetto particolare del processo di integrazione finanziaria europea dopo l’introduzione dell’euro è stato un deciso incremento nelle attività bancarie tra paesi. L’esposizione delle banche dei paesi del centro verso i paesi della periferia è più che quintuplicata tra l’introduzione dell’euro e l’inizio della crisi finanziaria.
L’esplosione di questi afflussi di capitale si è distribuita in maniera disomogenea tra i paesi periferici, ma li ha influenzati tutti, e contenerne gli effetti è risultato estremamente difficile.
Ho esperienza di prima mano delle difficoltà incontrate dai paesi periferici. Le regole europee dei liberi movimenti di capitale, l’obiettivo di creare un campo di gioco comune per differenti settori bancari, e la fiducia nella supposta autoregolamentazione dei mercati finanziari, hanno tutti cospirato nel rendere molto difficile qualsiasi forma di contenimento del fenomeno. In più, nessuno aveva previsto che un “sudden stop”, caratteristico delle economie emergenti, potesse accadere nell’eurozona.
Di conseguenza, l’afflusso di finanziamenti relativamente a buon mercato si è trasformato in una gigantesca esplosione del credito nei paesi ora sotto pressione. Come sappiamo, il credito non è stato perfettamente ottimizzato dai razionali agenti economici privati. Dal lato della domanda, in un contesto di bassi tassi di interesse, i consumatori e le aziende, aspettandosi una futura crescita, hanno anticipato i consumi e gli investimenti come dei bravi ottimizzatori temporali. Dal lato dell’offerta, le banche europee e i mercati finanziari non si sono comportati come la teoria di gestione del rischio prevedeva. Questo è quel che ha portato al surriscaldamento, pressione su stipendi e salari, perdita di competitività e grandi deficit delle partite correnti.
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(Il testo continua, purtroppo in contrasto con le premesse, richiamando il ruolo delle “necessarie” politiche fiscali restrittive, l’opportunità di un’unione bancaria e delle solite “riforme strutturali” per ridurre gli squilibri tra paesi. E nel finale, si propone per il futuro una revisione dei modelli sui quali si basano le loro previsioni.)
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