Educazione è responsabilità verso la storia.Romano Luperini
Ho classi con elenchi - ormai normali - di trenta ragazzi; poi, per via della dispersione scolastica, i numeri finiscono anche il dimezzarsi. Mi vergogno a dirlo, ma talvolta mi scopro a pensare che per fortuna non vengono tutti: nelle condizioni drammatiche in cui si presentano in aula gli alunni, l'ambiente di lavoro sarebbe ancora più esasperante. Quelle rarissime volte nelle quali lo studente esistito fino ad allora solo di nome viene a scuola, per timore che i servizi sociali entrino in casa (e siano messi a parte del degrado in cui la sua famiglia vive), questi non porta la giustificazione - e non ci pensa nemmeno - perché viene solo a "marcare presenza". Allora, il mio invito a frequentare la scuola è genuino e anche entusiasta, nondimeno è faticoso. Questi ragazzi si presentano con l'esplicito intento di far pagare al mondo la violenza alla quale sono sottoposti e mostrano il lato peggiore che un animo recalcitrante a ogni istruzione possa rivelare.
Poi, capita pure che li incontri, questi ragazzi "sempre assenti". Ti salutano, certo non con deferenza, ma senza il manifesto disprezzo che hai visto disegnato nel loro volto e nei loro atti quando hanno interrotto l'assenza per quelle poche ore. Addirittura sorridono. Sembrano anche più puliti. Mi ricordano i miei alunni frequentanti, che so io, nella settimana dello studente o quando sono lasciati liberi di organizzare il loro tempo o tra una lezione e l'altra. Parlano con più libertà e con chi possono, ridono anche, mettono una pezza sul disastro esistenziale che li ha portati fin lì, provano a superarsi. Talvolta si crea con loro anche un'insperata ed effimera intimità, uno scherzo, magari alcuni sembrano dirti: "io non ce l'ho con te". Lo stesso capita (l'ho visto con i miei colleghi) quando vengono a trovarti dopo il diploma, in quel caso mostrano addirittura gratitudine per i singoli professori, qualunque sia il loro passato in classe. Perché loro ce l'hanno con la scuola. Per loro, il problema è la scuola
Il problema è il senso di disagio verso quest'istituzione alla quale a parole noi attribuiamo ogni ruolo salvifico del mondo: per loro la scuola è un ostacolo in più in una vita non certo facile. Non portano libri, talvolta "dimenticano" pure gli zaini a casa, tengono con sé oggetti costosissimi (e inspiegabili dato il presunto bilancio familiare). O esibiscono gadgets ancora più esosi per manifestare che in casa loro entra di più, entranoaltri soldi. Maneggiano spesso le idee più retrive, perché più concrete, ne possono vedere esiti ed effetti senza troppa fatica; della modernità comprendono solo un certo grado di alterità (che è spesso alienante), perché significa distrazione dalla noia. La modernità, in effetti, entra nelle loro case con tutto il suo carico di dissesto. Qualcuno, un genitore o più spesso un tutore, affoga i ragazzi di diversivi quando e come può. Spesso gli alunni hanno un'idea del lavoro a dir poco imbarazzante, per cui il lavoro non è che un modo alternativo di agitarsi; meno che mai arrivano a configurarsi il mestiere dell'insegnante. L'insegnante è un personaggio come un altro di un gioco di ruolo e, se proprio ci tiene, si deve accontentare di una proiezione nel futuro del suo operato, se e quando trasparirà infine da tutto il vissuto di quelli che furono alunni.
Non tutti, certo, vengono da un contesto di disagio o addirittura di degrado. Alcuni, per carattere o problemi educativi, sono solo disaffezionati allo studio: ma sono intelligenti e, in certi casi, anche profondi per la loro età. Ma per tutti, per tutti, la scuola è il problema: la scuola è il problema perché interrompe il flusso - o direi anche la corsa a precipizio - della vita, perché non ha, per loro, alcuna utilità intrinseca: c'è la dispersione scolastica di chi ha da fare cose migliori o più serie che andare a scuola e poi c'è tutta una fetta di alunni che vengono a patti con la necessità del pezzo di carta o, fuori dalla scuola, non hanno comunque niente di meglio in programma per quel giorno, per quel mese, per quell'anno, per quel pezzo di vita che intravvedono. La promozione di ragazzi in tale contesto è davvero ostica, perché la promozione, ammesso che conoscano il concetto o sperino nella sua realizzabilità, non passa per la scuola. La delibera del consiglio di classe che comporta il passaggio alla classe successiva per loro non è promozione - e non la vivono con gioia - ma un pensiero in meno, una pietruzza in meno dalla scarpa.
In un contesto simile la scuola è e deve essere il problema. Deve essere ciò che interrompe l'inarrestabile disperazione, l'impatto contro il muro della persistenza di uno status, deve essere la discontinuità. Deve essere la prova che il moderno non è solo un tuffo nel virtuale dell'elettronica di consumo o la disarticolazione della vita codificata e semplice - la più a buon mercato, l'unica che possono permettersi - alla quale si aggrappano nonostante tutto: deve essere la prova che c'è un orizzonte molto più costruttivo e in grado di mostrar loro cosa sia costruzione del futuro. Cosa sia ambizione, cosa sia superarsi. Superarsi, non per lasciare indietro con boria una parte di sé, ma per vedere anche il volto e non solo le proprie spalle. L'ambizione - e il coraggio - più grande di un docente potrebbe essere quella di far crescere persone ambiziose e il più possibile competenti. Mi sembra chiaro, ormai, che il professore debba lavorare su questa rottura operata dalla scuola in certi contesti e puntare proprio sulle prospettive che questa improvvisa discontinuità offre. È da lì, forse, che occorrerebbe partire: dal fatto che, per la paciosa accettazione che tutto sarà sempre identico e irrimediabile, la scuola è il problema