In un testo scritto nel 1936, "Spagna", un testo dimenticato, perduto, di sei pagine, Thomas Mann vede nella guerra di Spagna "il più immondo scandalo della storia dell'umanità". Si potrebbe anche dubitare dell'enormità di questa dichiarazione se due altri premi Nobel, Gide e Camus, non avessero scritto nello stesso senso. E se qualcuno che non ci aspettava, lo scrittore cattolico e monarchico Georges Bernanos - in vacanza sull'isola di Maiorca nell'estate del 1936 - non avesse emesso un giudizio simile; parlando de "la scomparsa dell'uomo di buona volontà, laddove gli altri scrittori citano la fine di un'umanità.
Mann scrive "Spagna" nei pressi di Zurigo, dove ha scelto di esiliarsi nel 1933, anno dell'ascesa al potere di Hitler. Mette nero su bianco la sua diagnosi dello scoppio del conflitto in questo testo che non è mai stato citato dagli storici. Si immagina perché troppo eccessivo, troppo immaginativo, ma egli non fa altro che proclamare solennemente la verità. Nel 1936, per Mann, ad essere minacciate in Spagna sono "le rivendicazioni della coscienza", e questo avviene con "una sfrontatezza finora sconosciuta". Lo spirito è stato colpito in pieno volo, come mai prima!
Gide, frattanto, rientrato nel 1936 da Mosca, con, nel suo bagaglio, il manoscritto di "Ritorno dall'URSS" - che avrebbe scatenato il furore di Stalin - dove denuncia il sistema comunista, arrivando ad abbassarlo al livello del sistema hitleriano: questo testimone impavido, quindi incorruttibile, vede in "Spagna" una continuazione delle sue constatazioni. "Dubito" - aveva scritto a Mosca - "che oggi ci sia qualche altro paese, ivi inclusa la Germania di Hitler, in cui lo spirito sia meno libero, più curvo, più atterrito - terrorizzato -, più vassalizzato."
La lettura di "Spagna" gli fa decidere di pubblicarne la traduzione in Francia, insieme ad altri testi di Mann sul medesimo soggetto: altrettanto vivaci, brevi, definitivi; una raccolta, "Avviso all'Europa", di cui Gide scriverà la prefazione. Ma prima fa visita a Mann sul luogo del suo esilio. Mann è stato premio Nobel nel 1929, Gide lo sarà nel 1946. I due si conoscono, si stimano, si sono già incontrati a Parigi nel maggio del 1931, durante una visita dello scrittore tedesco, invitato dall'Istituto internazionale di cooperazione intellettuale. Ci sono cose di cui ci si dimentica, ma Gide si ricorda. Nella sua prefazione farà notare quanto Mann, in "Spagna", lasci "emergere tutta la sua indignazione". Nella "Lettera al Decano della facoltà di filosofia di Bonn" - inserita nella raccolta - ripete quanto aveva annunciato nella sua rinuncia alla nazionalità tedesca, dove quell'indignazione era "contenuta". Qui, emerge, si afferma in una maniera talmente forte da unirsi alla veemenza di Bernanos. La richiama, la chiama. Bernanos che, dall'isola di Maiorca dove si trova in vacanza, scopre quello che per lui è l'impensabile: altri cattolici, come lui, si comportano da assassini. Scrive il suo libro, "I grandi cimiteri sotto la luna" abitati da dei morti che non hanno un posto dove stare. Bernanos si accorge improvvisamente de "la scomparsa degli uomini di buona volontà". Ne porta il dolore, lo vede sotto le macerie. E va ricordato che il figlio di Mann, lo storico Golo Mann, scriverà su una rivista tedesca a proposito del libro di Bernanos; e suo padre non potrà ignorarne l'esistenza.
Camus, allora giovane giornalista ad Algeri, presente, leggendo quest'opera, il proprio destino, e confida al suo giornale: "Bernanos è uno scrittore tradito due volte. Se gli uomini di destra lo ripudiano per aver scritto degli assassini di Franco, i partiti di sinistra lo acclamano quando lui non vuole stare con loro. Bisogna rispettare interamente l'uomo, e non cercare di annetterselo."
In "Spagna", il tributo di Mann al popolo spagnolo è superbo: "Libertà e progresso non sono ancora presso questo popolo dei concetti corrotti dall'ironia e dallo scetticismo. Loro ci credono, come credono nei più alti e degni valori del loro sforzo." Nel 1952, Camus fa di questo popolo "l'aristocrazia dell'Europa". Si spiegano così le ragioni per cui questi grandi hanno fatto della Spagna un caso a parte.
Quando Camus enuncia questa verità - che potrebbe sembrare nota soltanto a lui, con il suo sangue spagnolo (sua madre è di Maiorca) - egli ha sotto gli occhi il sinistro spettacolo cei "democratici" che accolgono Franco nel consesso delle nazioni, in senso all'Unesco, organizzazione legata alle Nazioni Unite e responsabile del patrimonio culturale, la cui sede è a Parigi. Franco, fino a ieri alleato di Hitler e di Mussolini, oggi corteggiato dai "democratici" in nome della guerra fredda che li oppone all'Unione Sovietica. Cosa importa se a Madrid il potere continua a garrotare gli oppositori, se Lorca, assassinato nel 1936, poeta luminoso in una Spagna oscura, è tuttora vietato! Camus ci avverte: "Un governo, per definizione, non ha coscienza." Soltanto questa "aristocrazia dell'Europa" ai suoi occhi è capace di difendere quel che c'è "di meglio in noi". Così facendo, restituisce il termine "aristocrazia" alla sua definizione originale, etimologica, "il governo dei migliori".
Il 22 gennaio del 1958 si interroga di nuovo: "Cosa devo alla Spagna? Praticamente tutto!" L'ammissione è assente nel suo discorso per il premio Nobel, in Svezia, pronunciato nel dicembre del 1957, ma è presente in gennaio, quando si rivolge ai rappresentanti di questa "aristocrazia": gli esiliati spagnoli a Parigi. Il collo irrigidito, il volto severo, si riferisce al proprio esilio, quello interiore: "Cerco di fare il mio mestiere e a volte è dura, soprattutto nella nostra società intellettuale, dove il riflesso ha rimpiazzato la riflessione, dove ci sono intere sette che fanno della slealtà un punto d'onore, e dove la malvagità cerca troppo spesso di farsi passare per intelligenza." Gli esiliati scuotono l testa, sono consapevoli del loro isolamento - sono isolati in un'Europa in cui si ritrovano accerchiati dagli interessi! Per Camus, il suo esilio sarà il risultato preciso della pubblicazione de "L'uomo in rivolta". Questo saggio farà sì che venga etichettato dall'intellighenzia parigina come "scrittore consensuale", morbido, senza destino politico. A guidare la muta ci sarà Sartre.
In realtà, Camus difende il punto di vista spagnolo di cui quest'aristocrazia è espressione, sia antimarxista che anticapitalista, in un'epoca in cui si è l'uno o l'altro, ma sicuramente mai le due cose insieme. "L'uomo in rivolta" assume la più segreta guerra di Spagna, i rivoltosi di Barcellona, quelli delle Asturie e dell'Andalusia, sospettosi nei confronti di quei due poli opposti, eppure uniti nel loro disprezzo per l'umanità. Conseguentemente, per lui, l'esilio, richiesto a causa di un superamento del nichilismo che ha macchiato in Spagna le fila degli anarchici, fra cui molti, ed egli stesso in particolare, hanno avuto la tentazione di una "rinascita". Nel maggio del 1958, su "Le Libertaire", precisa: "La sola passione che anima L'Uomo in Rivolta è proprio quella della rinascita". E così, in quella sala senza domani, associa il proprio destino a quello degli esiliati spagnoli. A quegli "uomini del suo stesso sangue" - come dice - ricorda come la loro amicizia costituisca "la fierezza della sua vita".
Lo stesso respiro brucia lo spirito di Thomas Mann. Quest'uomo del Nord che non frequenta né il sole né gli anarchici. Non ha affatto sangue spagnolo. Un grande borghese, all'opposto di Camus che proviene dai quartieri poveri di Algeri. Mann indossa un abito a tre pezzi, non una tuta blu, come veniva consigliato di indossare a Barcellona, nel 1936, anno in cui egli scriveva "Spagna". E' nato nel 1875, a Lubecca, un porto sul Baltico, in una famiglia di ricchi mercanti di grano. La casa di famiglia ha una facciata con cinque finestre al primo piano; al suo interno, un salone per la musica dove ascoltare Wagner. Questo scrittore tedesco diverrà premio nobel per la letteratura nel 1929, e ben presto avrà fama di "decadente". La politica lo irrita. Si richiama al "periodo borghese della nostra civiltà"; e pone Goethe sopra tutti. Vuol parlare dell'epoca in cui esisteva il pubblico, e non ancora le masse. Odia stranamente l'omologazione. Questo spirito che lo presenta, nel 1950, come "un retrogrado, un ritardatario", ha soppiantato la storia. Camus ci spiega il perché: "Il culto della storia non può essere nient'altro che il culto del fatto compiuto. Come tale, non smetterà mai di essere disonorevole." Mann ha sconfitto questo risultato, infilandosi nelle sue pieghe; penetra gli strati dell'oblio, del cinismo. La storia è come un sipario. Dietro di esso si distingue l'apertura della caccia. Per gli storici è letteratura. E in effetti lo è!
In "Spagna", scrive Mann, per ogni uomo, ed in particolare per il poeta, si tratta di salvare il proprio spirito o - perché non usare il termine religioso? - di salvare la propria anima".
Questi cannoni, questi bombardamenti, questi battaglioni venuti da tutti gli orizzonti, da sinistra, da destra, sono stati mobilitati innanzitutto per distruggere lo spirito, l'anima. Sì, certamente! scandisce Mann. Questo "decadente" è formale, anche se suo fratello Heinrich e suo figlio Klaus, vicini al partito comunista tedesco, non vedono il crimine e giudicano irrilevante l'angoscia di Thomas Mann. Per loro, il conflitto spagnolo, come peraltro per molti, se non per tutti, è un conflitto politico, dove delle ideologie si contendono il potere.
Un caso chiuso. Il capitalismo contro il socialismo, la destra contro la sinistra, i ricchi contro i poveri, i credenti contro gli atei. E' la prefigurazione della Seconda Guerra mondiale; una sorta di banco di prova... come essenzialmente lo riferiscono i libri di storia. Nient'altro! Ma la morte della coscienza? Se è così, lo scandalo è infinito. Già dal 1936, Mann denuncia l'infame complicità delle democrazie - in un gioco di ombre. I loro rappresentanti sostengono una "politica di non-intervento" nel nome di un dubbio pacifismo. Churchill, i primi ministri, l'inglese Chamberlain, il francese Dedalier, i loro rispettivi parlamenti, dicono, sussurrano: non si interferisce. Si lascia fare. La loro politica di non-intervento si rivela una politica di intervento. Infatti, mentre Hitler e Mussolini armano Franco, queste democrazie, in nome del loro pacifismo, si astengono dal fare altrettanto per la Repubblica spagnola. Mann proclama quello che nessuno osa vedere, credere, dire: "I governi europei interessati a veder morire la libertà, hanno riconosciuto il potere di questo ribelle come il solo potere legale, e questo in piena guerra civile, questa guerra che continua grazie al loro appoggio, dal momento che non è stata da loro disattivata." Prende la parola e smaschera i mafiosi. Al poeta dell'insurrezione. All'artista. "Lui che la sua natura ed il suo destino hanno posto nel luogo più esposto dell'umanità", risponde Mann, irriconoscibile, lontano da quello che è stato o ritiene di essere stato. Quando scrive: "Il poeta che si ferma davanti al problema umano, posto nella sua forma politica, non solo è un traditore della causa dello spirito in favore del partito dell'interesse, ma è anche un uomo perduto. La perdita è ineluttabile. Egli perderà la sua forza creatrice, il suo talento, e non farà più niente di durevole. E anche la sua opera precedente che non porta l'impronta della colpa, e che è stata buona, cesserà di esserlo. Egli non significherà più niente agli occhi degli uomini."
Quando, nel 1936, scrive queste righe mozzafiato, sconcertanti, egli muta, o quanto meno lo si potrebbe credere. Le sue "Considerazioni di un impolitico", un libro di seicento pagine, pubblicato nel 1918, come eco alla Prima Guerra mondiale, facevano dell'artista una lucciola, un uomo al di fuori del tempo, confinato ai suoi scritti, animato dall'idea che ogni pensiero è allo stesso tempo giusto e falso. Col conflitto spagnolo, Mann si impegna, si batte; si tira fuori dalla sua falsa sonnolenza. Libera questa guerra dai suoi cliché ideologici e politici, Chiama quelle democrazie, "capitaliste". Ma soprattutto, si mostra visionario, solidale con Lorca, con il poeta andaluso che si è fatto carico del "problema umano"; e la sua opera lo ossessiona. La sua "Ballata della guardia civile spagnola" è una vetta della poesia contro il peggio. Gli è valsa la morte, ma anche la sua resurrezione. Pletore di poeti sono morti in Spagna. Poeti, come Miguel Hernández, morto nel 1941 in una putrida prigione di Alicante, l'ultimo bastione repubblicano a cadere; poeti, come Rafael Alberti, Antonio Machado. Ventimila, il numero delle poesie scritte, nel corso di quella guerra, e cinquemila il numero dei poeti che l'hanno combattuta, che hanno scritto le loro poesie nel buco delle trincee, assai spesso con mani anonime, poco prima di lanciarsi all'assalto, e di lasciarci la pelle. Il "partito dei poeti", come lo chiamerà Hugh Thomas, ha subito in quella guerra la sua più grande ecatombe, sotto le pallottole, sotto i bombardamenti franchisti, nazisti, fascisti, con la complicità delle "democrazie capitaliste", come dichiara Mann... Con il silenzio di cui parla Gide, quando scrive nella sua camera d'albergo moscovita, "Siamo esterrefatti nel vedere che non ci sia alcuna allusione alla Spagna, le cui notizie da qualche giorno non smettono di inquietarci". Niente sulla sulla stampa sovietica, niente sulle bacheche delle fabbriche che Gide ha visitato. Niente.