Lunedì sera, dopo oltre un anno di carcerazione preventiva, sono stati scarcerati Nedim Sener e Ahmet Şık: due giornalisti accusati di attività eversive nell’ambito del processo Ergenekon (l’organizzazione simil-Gladio accusata di aver organizzato tentativi di golpe a ripetizione nell’ultimo decennio), utilizzati come pretesto da specifici settori dell’establishment tradizionale turco – militari, burocrazia, grandi gruppi industriali, media ideologicamente orientati – per una campagna di delegittimazione nei confronti del governo dell’Akp ripresa senza battere ciglio dagli organi di informazione occidentali. Molti colleghi hanno festeggiato, ricordando comunque i cento e più giornalisti attualmente detenuti in Turchia: spesso dimenticando di ricordare, però, che nessuno è in prigione per aver “criticato il governo” (come spesso viene fatto intendere, anche se la stampa turca ogni giorno abbonda di critiche: critiche autentiche, che non hanno nulla a che vedere con gli insulti o con le falsificazioni propagandistiche). Il problema, infatti, è di diversa natura: a essere attualmente in prigione non sono solo giornalisti ma anche intellettuali, militari, docenti universitari, attivisti politici accusati di favoreggiamento del Pkk in larga misura (l’inchiesta Kck) o di eversione. Parlare di libertà di espressione violata, di “giornalisti in prigione”, equivale a mistificare la realtà; da condannare e combattere – con tutti i mezzi lecitamente a disposizione – sono invece delle leggi anti-terrorismo eccessivamente vaghe e repressive che puniscono non solo azioni violente ma anche l’attivismo politico, è soprattutto il ricorso sistematico alla carcerazione preventiva. In ogni caso, Nedim Sener e Ahmet Şık non sono stati assolti: come ha osservato Erdoğan, “il processo continua” e l’assoluzione verrà eventualmente pronunciata solo dai giudici; ma in uno stato democratico i processi andrebbero celebrati celermente e possibilmente senza punizioni preventive.