L’altro ieri la vice sindaco di Roma Sveva Belviso, compassionevole con teppisti, accogliente con irriducibili picchiatori, solidale con reduci purchè della banda della Magliana, ha affermato che i rom “si possono scordare le case popolari”.
In Italia i rom vivono ai margini, a Roma e Milano continuano gli sgomberi forzati dei campi nomadi, denuncia Amnesty International aggiungendo che il problema non è periferico: “Il governo Monti non solo non ha rinnegato la politica dell’emergenza nomadi” – ricordano – “ma ha persino fatto appello contro la sentenza del Consiglio di Stato che dichiara illegittima quella politica”.
Non c’è da stupirsi, si sa che per i ricchi la guerra è un gioco, nel quale mettono i poveri gli uni contro gli altri, suscitando crudeltà implacabile al fine di contendersi una posta miserabile. E lo sanno i fascisti di oggi come di ieri, capaci di smuovere l’infamia bestiale che nascondiamo, di svegliare la diffidenza e la paura che dorme in noi nei confronti di chi è diverso, di scatenare istinti disumani di rivincita o di difesa dimentica di ogni solidarietà.
“Mica è stata una gran violenza. Li abbiamo fatti uscire prima dalle casarelle che hanno costruito. Loro sono usciti e noi le abbiamo incendiate. Per non farli tornare”. Lo disse al Tg2 nel maggio 2008 una donna di Ponticelli, dove gli abitanti esultando diedero vita a quelli che qualcuno ha definito i “vespri di Ponticelli”, un pogrom mosso da poveracci contro più poveracci di loro, bruciando casarelle, correndo dietro ai rom, stanandoli e spingendoli via, via verso luoghi ancora più marginali.
Era già successo a Napoli dove nel ’99 la casarelle di Scampia vennero attaccate con molotov e taniche di benzina. Era successo a Roma, a Verona, a Torino e succede con giunte di destra e giunte di centro sinistra.
Il rifiuto e la fuga sono scritti nella storia delle comunità rom d’Europa, non nomadi per natura, ma sfollati, sfruttati, espulsi, perseguitati, rifugiati, migranti condannati a essere minoranza più minoranza degli altri ovunque si trovino, senza diritti, senza garanzie né garanti. Se dichiarazioni e atti ostili verso altri da noi, verso altre minoranze causano nei benpensanti qualche reazione pubblica o privata, il livore, atti malevoli, intolleranza, vessazioni contro gli zingari, vengono accolti nel migliore dei casi con distaccata acquiescenza, con remissiva accettazione. Come se fosse legittimo condannare, chi viene percepito come non integrato per non dire apocalittico, all’emarginazione e ancor meglio al confinamento, dando luogo a una confinamento istituzionale, “democratico” fatto di irruzioni di stato, di spianamento di insediamenti con le ruspe benefiche, di repulisti a fini sanitari. Ma prima ancora frutto di implacabile indifferenza, di interessamento intermittente di Asl o della magistratura minorile, di autorità scolastiche e di organismi di sorveglianza, attivati da un’opinione pubblica che esige l’amministrazione politica del rifiuto, dell’esclusione, del controllo tramite impronte digitali di bambini, permessi e autorizzazioni contraddittorie quanto comma 22, con l’ossessione di farli diventare normali, come noi, di affrancarli dalle loro vite nude per restituirli alle nostre non molto ormai più garantite e protette.
A Tor de’ Cenci come a Venezia, a Verona come a Torino di è assistito all’ambigua instabilità delle politiche pubbliche ondeggianti nell’ambivalenza confusa tra accoglienza e persecuzione, tra apertura e segregazione, tra crudeltà etnica e interazione, con episodi seriali di crudeltà razzista, ignoranza delle culture e delle identità, ottusità burocratica, inadeguatezza dei mezzi impiegati.
Assessori incaricati di politiche dell’integrazione rivendicano di escludere nativi italiani, o rifugiati da eventi bellici tremendi, cittadini italiani dal godimento di diritti. E radono al suolo con le loro baracche la loro identità, le loro memorie, in un’ansia di sterilizzare i luoghi, spogliare le persone, annullare gli usi, per quella tremenda irraggiungibile combinazione di accoglienza e sicurezza, quando la sicurezza è certamente prevalente, onnivora, ipocritamente prioritaria.
Il fatto è che contrariamente a quanto avvenuto in altri paesi europei, in Italia non solo poco si sapeva di rom e sinti, oltre le leggende metropolitane di bambini rubati. Tanto che non esiste una legislazione “dedicata”. In generale i principi stabiliti dalla Costituzione dovrebbero essere validi per tutte le minoranze. Ma non essendo rom e sinti riconosciuti ufficialmente come minoranza linguistica, sono stati più minoranze di altri, e hanno goduto in maniera limitata delle tutele costituzionali accordate alla altre minoranze.
E nonostante l’articolo 16 della Costituzione affermi che “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di salute o sicurezza” i divieti di sosta per i “nomadi” sono diffusi sul territorio nazionale: solo nel ’70 lo Stato riconosce l’Opera Nomadi come organismo di rappresentanza e di portavoce. Ed è a partire dagli anni Ottanta che undici regioni promulgano leggi volte alla “tutela dei nomadi” riconoscendo nel nomadismo la caratteristica di gruppi indistinti, rom, sinti, zingari, senza aggiornarne i principi nemmeno quando negli anni Novanta l’arrivo dei profughi rom dell’ex Jugoslavia modifica il profilo demografico della popolazione rom in Italia, in una confusa rimozione delle differenze e dell’incontro difficile tra rom stranieri e nomadi italiani e mostrando l’inadeguatezza iniqua e ottusa del sistema di asilo come di quello di accoglienza. L’intento era ed è lo stesso, mascherare l’impotenza, l’incapacità e l’irresponsabilità a governare un problema dietro l’apparenza di una emergenza che da umanitaria è diventata sicuritaria.
Accuse di razzismo e discriminazione sono piovute sui governi da parte delle organizzazioni internazionali, Commissione dei diritti umani, Ocse, Europarlamento, Amnesty, Human Rights Watch: sono inaccettabili le condizioni di vita dei rom qui da noi. E infatti che vita è quella nella quale si è espropriati di identità storia per essere condannati alle stereotipo e congelati nella retorica come immagini fermate nel tempo, con gli stessi abiti, le buccole d’oro, le roulotte, i furtarelli che suscitano ripulsa, disprezzo, diffidenza, nel migliore dei casi interesse antropologico. Eppure se ci si andasse in quei campi, in quelle roulotte si potrebbero incontrare cittadini italiani da generazione o echeggiare nomi come tremende evocazioni Mostar, Srebrenica, Sarajevo, recitati da scampati a una guerra feroce per trovare un altrettanto feroce rifiuto, una implacabile esclusione.
Tra il ’40 e il ’45 Hitler ha cancellato le comunità rom di mezza Europa, con un accanimento persecutorio e una volontà di annientamento analoghi a quelli riservati agli ebrei. Pare che la maledetta storia attraverso noi voglia continuarne l’opera, in modi apparentemente meno cruenti. Qualcuno ha detto che incontrando il mondo degli zingari magari sapremmo poco di loro, ma certamente impareremmo molto di noi stessi, dei nostri pregiudizi, delle nostre paure, della nostra fragilità. E del tentativo sempre più risibile di sentirci superiori attraverso la sopraffazione degli altri da noi. Ci propongono come auspicabile e desiderabile un mondo globalizzato. Eppure a circolare e radicarsi sembra siano solo le disuguaglianze e le ingiustizie, mentre noi siamo condannati a essere meno di zingari, perduta la casa, perduto il ricordo di come volevamo essere.
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