Se ieri sullo scranno del Presidente del Consiglio ci fosse stato Angelino Alfano o Silvio Berlusconi, forse qualche voce in più si sarebbe alzata per dichiarare che il discorso tenuto dal premier alle Camere sembra più un libro dei sogni che un programma di governo. Invece su quella poltrona c’era Enrico Letta, sicché anche il Partito Democratico ha applaudito e ringraziato.
Eppure ciò non toglie che buona parte delle linee programmatiche esposte dal capo del governo appaiono, nella migliore delle ipotesi, irrealizzabili, e ove non lo siano annunciano peggioramenti di non poco rilievo. Il discorso di Letta si muove tutto all’interno della compatibilità del quadro europeo dato. Un quadro certo in mutazione nelle ultime settimane, con alcuni colpi inferti agli eccessi di austerità da parte dell’ex capo dell’eurogruppo Junker, del presidente della Commissione Barroso, del governo socialista francese, del commissario agli affari sociali László Andor e del presidente del parlamento europeo Martin Schulz. Da qui gli accenni del capo dell’esecutivo italiano alla necessità di puntare sulla crescita e di allentare il rigore. L’Italia però arriva buon ultima mentre l’Europa già pensa ad un’austerità più morbida, che si risolverà in un ritocco cosmetico dell’ormai insostenibile rigore merkeliano.
Dopo un retorico richiamo all’orizzonte degli “Stati Uniti d’Europa”, Letta, lungi dal proporsi come punta di diamante di una svolta nell’Unione, non rinuncia a ribadire i capisaldi dell’ideologia che ha guidato l’azione del governo Monti e in generale quella dei governi dell’eurozona. In primo luogo, per il premier, qualsiasi azione di stimolo all’economia non deve creare maggiore debito pubblico perché esso “grava come una macina sulle generazioni presenti e future”. Ma sulle generazioni presenti e future grava molto di più l’azione messa in campo dal suo predecessore, che pure loda: “il grande sforzo di Monti è stata la premessa della crescita”. Né si capisce come sia possibile stimolare l’economia riducendo la spesa pubblica, come annunciato dal Ministro Saccomanni, visto che le più recenti ricerche confermano il risultato keynesiano secondo il quale il moltiplicatore della spesa pubblica è decisamente maggiore di quello della riduzione delle imposte. Per di più, Letta ha sostenuto che il deficit di bilancio spaventerebbe i mercati, facendo aumentare i tassi di interesse, quando ormai è del tutto evidente che lo spread segue logiche ben differenti e i mercati guardano molto più alla BCE che a Palazzo Chigi.
L’Italia, peraltro, non ha mai avuto un problema immediato di solvibilità, come la stessa Commissione europea ha certificato. Ma con lo spauracchio del default imminente e della crescita dell’ormai famigerato spread, sono state imposte al paese politiche che non favoriscono la crescita né per l’oggi né per il domani, essendo una versione drastica di quelle che il paese ha subito dal 1992 e in particolare nell’ultimo decennio. E nel solco di queste politiche Letta sembra muoversi, quando ad esempio parla di “ridurre le restrizioni ai contratti a termine”, come chiede a gran voce Confindustria. Obiettivo, questo, in palese contraddizione con quello, pure enunciato, di puntare sui contratti a tempo indeterminato.
Il premier assume come priorità la cancellazione dell’IMU sulla prima casa, un caposaldo della propaganda berlusconiana, la cancellazione dell’aumento dell’IVA, ma anche la soluzione del problema esodati. Non è tuttavia dato di sapere dove le risorse verranno reperite, visto l’obbligo di non accumulare ulteriore debito. Il rischio, secondo molti, è che alla fine la soluzione sarà un ulteriore aggravio dell’imposizione fiscale sui redditi.
Infine, nel libro dei sogni governativo, trova anche spazio un’altra misura estremamente costosa: il reddito minimo. Ma nella versione lettiana esso sarebbe limitato alle “famiglie bisognose con figli piccoli”, perdendo qualsiasi carica innovativa di strumento corrisposto su base individuale per favorire l’autodeterminazione dei giovani ed in generale di chi è in cerca di lavoro. Sul reddito minimo si possono nutrire molti dubbi, ma la formula di Letta sembra più l’ennesimo strumento di welfare residuale, piuttosto che una misura universalistica. Nel novero delle proposte c’è anche un’ulteriore estensione degli ammortizzatori sociali ai lavoratori precari.
Che quelli di Letta siano poco più che auspici lo dice del resto la matematica. Se il governo dovesse davvero attuare quanto promesso, sommando le varie voci di spesa e i mancati introiti si arriverebbe alla cifra di circa 20-25 miliardi di euro all’anno. Difficili da reperire in pareggio di bilancio senza nuove imposte o tagli ad altre spese.
Insomma, il programma del nuovo governo (“musica per le nostre orecchie”, l’ha definito Alfano), si caratterizza per scarsa ambizione, numerose contraddizioni, nessun numero o copertura, e persino qualche passo indietro, in tema di lavoro, rispetto a quanto realizzato dal governo Monti.
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