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Il prossimo futuro è ancora nei combustibili fossili: shale gas e risorse non convenzionali

Creato il 29 luglio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Il prossimo futuro è ancora nei combustibili fossili: shale gas e risorse non convenzionali
Tecniche di estrazione, riserve, rischi ambientali

Negli ultimi anni si è assistito all’irruzione nello scenario energetico internazionale, delle questioni legate allo sfruttamento dello shale gas. Quella che da più parti viene considerata come una rivoluzione energetica, è legata soprattutto ai progressi tecnologici compiuti nell’ultimo decennio negli Stati Uniti. Se nel 2000 lo shale gas rappresentava meno del 2% del totale della produzione nazionale statunitense di gas naturale, nel 2011 la quota è balzata già al 34%. Le stime dell’EIA prevedono inoltre che per il 2040 la produzione di shale gas arriverà a coprire oltre il 50% del totale1. Tali enormi progressi sono dovuti all’utilizzo di tecniche di ricerca, sviluppo e produzione più efficaci, raffinate ed economiche.

Con il termine shale gas ci si riferisce al tipo di giacimento non convenzionale, dal quale viene estratto questo tipo di gas. Si tratta di un gas intrappolato in accumuli di rocce argillose a profondità comprese tra i 2000 e i 4000 metri. La differenza principale tra giacimenti convenzionali e non, risiede nel tipo di roccia che contiene il gas e nelle tecniche utilizzate per l’estrazione. I primi sono costituiti da rocce porose e permeabili dalle quali, una volta perforate, è possibile raccogliere il gas sfruttando il differenziale di pressione. Lo shale gas invece ha origine da rocce, solitamente argille, poco permeabili. Dunque una volta perforate non lasciano fluire spontaneamente il gas in superficie. Da ciò è facile intuire come per molto tempo, lo sfruttamento dello shale gas è risultato tecnologicamente complicato ed economicamente non conveniente.

Recentemente, come detto, gli enormi passi avanti compiuti in campo tecnologico hanno consentito di colmare in parte tale lacuna. Essendo il gas intrappolato nella roccia, è necessario intervenire per favorirne la fuoriuscita. Le principali tecniche utilizzate in tal senso, sono la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica. Si tratta di tecniche già note alle industrie del settore, ma che solo di recente sono state adoperate in maniera più efficiente ed efficace. Una volta effettuata la perforazione verticale, la trivella viene fatta progressivamente deviare finché non si trova a lavorare in orizzontale, rispetto al piano del terreno, in direzione del giacimento, in modo da sfruttarne tutta l’estensione (i giacimenti di gas non convenzionale tendono ad essere molto più estesi rispetto a quelli convenzionali). La fratturazione idraulica invece prevede l’iniezione nel giacimento di un fluido ad alta pressione. Ciò consente di creare nuove microfratture nella roccia e di mettere in connessione quelle esistenti, incrementandone la permeabilità e dando vita a una via di fuga per il gas, dalla roccia verso il pozzo. Per evitare che tali microfratture si richiudano una volta terminata la pressione del liquido, a quest’ultimo vengono aggiunti granelli di sabbia o ceramica.

Allo stato attuale i giacimenti di shale gas hanno una resa decisamente minore rispetto a quelli convenzionali. Se da quest’ultimi infatti è possibile recuperare fino al 70% del gas contenuto, per i primi si estrae al massimo il 30%. La minore produttività rende necessario dover perforare un numero elevato di pozzi.
La rivoluzione dello shale gas è legata in particolare, come abbiamo visto, al boom produttivo negli Stati Uniti. Un balzo che ha consentito ai nordamericani di tornare a essere il primo produttore al mondo di gas naturale. Una rivoluzione esplosa in Texas, nel bacino di Barnett, dove si sono perfezionate le tecniche estrattive poi applicate al resto del paese. Attualmente, il bacino più importante di shale gas è quello di Marcellus, nel nord-est degli Stati Uniti, che da solo detiene il 55% del totale delle risorse recuperabili stimate di shale gas2. Ma non vi è solo lo shale gas, il boom produttivo statunitense coinvolge anche il petrolio non convenzionale. Nel 2012 la produzione petrolifera negli Stati Uniti è cresciuta di ben il 13,9% rispetto all’anno precedente, raggiungendo gli 8,9 milioni di barili al giorno3. Uno sviluppo impetuoso, dovuto in larga parte alle nuove possibilità di sfruttamento del tight oil, petrolio intrappolato in scisti e argille bituminose. Da questo punto di vista, particolarmente proficui si stanno dimostrando i giacimenti situati nel Dakota del Nord, che non a caso è al centro di una sostenuta crescita sia in termini economici che di popolazione. Bisogna sottolineare però, che le incognite relative al petrolio risultano essere maggiori. Essendo infatti un mercato fortemente integrato, l’economicità degli investimenti sul non convenzionale dipenderà molto dall’andamento dei prezzi a livello internazionale.

Oltre ad un ambiente favorevole alle innovazioni tecnologiche, tra i fattori che hanno consentito i progressi nello sfruttamento delle risorse non convenzionali negli Stati Uniti vanno annoverate: la grande conoscenza geologica del sottosuolo frutto di un’esperienza storica nel campo delle trivellazioni, e la presenza di una capillare rete di trasporto del gas naturale attraverso il paese. Riguardo le riserve di shale gas invece, secondo le stime dell’EIA, la maggior parte si troverebbe in Cina con 32 mila miliardi di m3 di gas, seguita da Argentina, Algeria e Stati Uniti con rispettivamente 23 mila miliardi di m3, 20 mila miliardi di m3 e 19 mila miliardi di m3. Si tratta però di riserve “tecnicamente recuperabili” in base alle tecnologie attuali, e che dunque non prendono in considerazione l’economicità di tale recupero. Gli Stati Uniti hanno invece dimostrato, negli ultimi anni, di poter usufruire delle proprie risorse a costi relativamente bassi e quindi in maniera economicamente conveniente4.

Ma le considerazioni economiche non sono le uniche al centro dell’attenzione relativamente allo sfruttamento dello shale gas. Sono infatti state avanzate non poche perplessità e preoccupazioni, riguardo ai rischi ambientali e per la salute, derivanti dalle tecniche di produzione sopra descritte.
Un primo rischio derivante dalla fratturazione del sottosuolo riguarda il pericolo sismico. Secondo alcuni esperti, usando acqua pressurizzata in prossimità di faglie attive e non solo, c’è il rischio di causare movimenti sismici. Mentre vi sono elementi che sembrano confermare questa ipotesi, l’intensità di tale sismicità indotta, rimane ancora una questione particolarmente controversa. Un secondo rischio riguarda i danni al clima derivanti dalla produzione di shale gas. Nelle prime fasi di estrazione infatti, una parte del gas viene liberato nell’atmosfera, contribuendo in questo modo all’effetto serra. I diversi studi differiscono nel valutare la quantità di gas derivante da tali fuoriuscite. La relativamente recente fase di sfruttamento di questa risorsa poi, non consente di disporre di analisi di lungo periodo, da confrontare con i dati relativi al gas convenzionale. Per questo ad oggi risulta difficile quantificare l’impatto dello shale gas sul clima. Ma la preoccupazione principale riguarda il rischio di inquinamento delle falde acquifere. Seppur i giacimenti di shale gas si trovano ben al di sotto di quest’ultime e i pozzi siano completamente rivestiti di cemento, c’è sempre il rischio che il gas liberato attraverso le trivellazioni orizzontali risalendo raggiunga una falda acquifera. A ciò va aggiunto che nel fluido utilizzato per la fratturazione vengono aggiunte sostanze chimiche, che permanendo nel sottosuolo diventano esse stesse potenziali inquinanti.

La rivoluzione dello shale gas presenta dunque una serie di incognite: economiche, tecnologiche, ambientali. In un mondo che verosimilmente sarà sempre più affamato di energia, le opportunità offerte dal gas e dal petrolio non convenzionali finiranno per forza di cose ad avere ripercussioni nei rapporti tra i principali attori internazionali

Risvolti geopolitici

La rivoluzione del gas e del petrolio non convenzionali potrebbe cambiare nei prossimi decenni lo scacchiere energetico internazionale. È interessante notare come, stando alle stime dell’EIA, le maggiori riserve siano localizzate in paesi esterni all’area del Vicino Oriente e alla regione del Golfo Persico, tradizionali centri di gravità delle risorse petrolifere convenzionali. Tutto ciò potrebbe dunque tradursi in un indebolimento dell’influenza internazionale di tali paesi. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, paese attualmente simbolo di tale rivoluzione, il minor fabbisogno energetico si è tradotto, nell’immediato, in un taglio delle importazioni di petrolio da quei paesi che producono un tipo di greggio qualitativamente simile allo shale oil. Algeria, Nigeria e Angola hanno registrato nel 2012 una diminuzione delle esportazioni del 41% e la tendenza sembrerebbe continuare. In questo senso, le previsioni più rosee vedono, per i nordamericani, il raggiungimento nei prossimi decenni della tanto agognata autosufficienza energetica. È facile intuire come ciò amplierebbe notevolmente lo spazio di manovra da parte di Washington.

La dottrina Carter, formulata nel 1980, manifestava la volontà da parte degli Stati Uniti di servirsi anche della forza militare per proteggere i propri interessi nell’area del Golfo Persico. Si trattava di interessi in larga parte legati alla produzione e alla circolazione del petrolio. Con l’affievolirsi della dipendenza energetica nei confronti della regione, le relazioni di Washington con i paesi del Vicino Oriente tenderanno sempre meno ad essere legate a un interesse vitale, tramutandosi invece in questioni attinenti il ruolo degli Stati Uniti come grande potenza. In particolare, occorrerà valutare come evolveranno i rapporti con l’Arabia Saudita. Si tratta di una relazione, quella con Riyad, caratterizzata da comuni interessi (da parte statunitense riguardanti soprattutto le enormi riserve petrolifere saudite) e non poche ambiguità. Un rapporto divenuto particolarmente complicato soprattutto dopo l’11 settembre, considerando anche il ruolo di spicco che il Wahhabismo ha nell’universo dell’integralismo islamico internazionale. Considerando le dimensioni dell’economia e degli interessi geopolitici statunitensi, sono poche le aree del mondo i cui cambiamenti non andrebbero, direttamente o indirettamente, ad intaccare tale potere. Ciò nonostante, una maggiore autosufficienza energetica, potrebbe rendere Washington meno disposta ad impegnarsi massicciamente per garantire la stabilità in tutta l’area del Vicino Oriente.

Da questo punto di vista, sembrerebbe invece in controtendenza il ruolo della Cina. Attualmente Pechino è già il primo singolo importatore di energia dal Vicino Oriente. Nel 2011, l’area ha fornito il 51% del totale delle importazioni petrolifere cinesi, con l’Arabia Saudita che da sola contribuisce per circa il 20% del totale5. La regione dunque è diventata vitale per gli interessi nazionali cinesi, e verosimilmente lo rimarrà anche nel prossimo futuro. L’interesse di Pechino alla stabilità in Vicino Oriente, collegata alla produzione e alla circolazione del petrolio, diverrebbe così preminente rispetto a quello di Washington.
Abbiamo visto come, stando alle stime EIA, la Cina deterrebbe le riserve maggiori di shale gas. Si tratta di risorse la cui economicità è ancora tutta da valutare, inoltre la Cina attualmente non dispone ancora del know how tecnologico necessario per rendere redditizio ed effettivo lo sfruttamento dello shale gas. Negli ultimi anni però le compagnie energetiche cinesi, attraverso acquisizioni e investimenti soprattutto in Canada e negli Stati Uniti, stanno tentando di acquisire le competenze necessarie a rendere possibile la produzione domestica di shale gas. La classe dirigente cinese è consapevole di come la dipendenza da un’area altamente instabile come il Vicino Oriente indebolisca notevolmente le ambizioni cinesi, per questo, non è da escludere che anche Pechino compia nei prossimi anni importanti passi avanti dal punto di vista delle risorse non convenzionali.

Per quanto riguarda l’Europa invece, le opportunità e le prospettive legate allo shale gas appaiono meno positive. Le riserve maggiori sembrerebbero localizzate soprattutto in Polonia e Francia, seguite dalla Norvegia6. Ma nel Vecchio Continente le problematiche, in particolare le sensibilità ambientali, risultano più accentuate che altrove. I rischi ambientali legati alla fratturazione idraulica non sono da sottovalutare e l’Europa, rispetto agli Stati Uniti, presenta aree a più alta densità, il che rende preminenti le preoccupazioni legate alla salute. L’Europa comunque appare divisa, su questo argomento come su tanti altri.
Polonia e Ucraina rappresentano attualmente i paesi che più di altri stanno promuovendo questo settore, affidando concessioni di esplorazione e produzione ai colossi dell’energia (Chevron e Shell in testa), puntando in tal modo ad attenuare la propria dipendenza energetica. In Francia e in Bulgaria invece, la tecnica della fratturazione idraulica è attualmente vietata, mentre in Olanda e Lussemburgo le prime perforazioni sono state interrotte a causa di un’opinione pubblica contraria. Anche in Germania si è scelto di procedere piuttosto cauti sul tema dello sfruttamento dello shale gas. Dal punto di vista geopolitico i risvolti più importanti riguarderebbero i rapporti con la Russia. Un boom nella produzione di energia in Europa, indebolirebbe di molto il potere di Mosca di esercitare influenza attraverso le proprie risorse naturali. Come detto però, le opportunità legate allo shale gas in Europa sembrerebbero attualmente meno promettenti rispetto certamente agli Stati Uniti, ma probabilmente anche alla Cina. A parte le resistenze sui rischi ambientali, si tratta anche di una questione legata alla necessità di massicci investimenti e alle diverse incognite geologiche relative all’effettiva reperibilità ed economicità delle riserve disponibili. Inoltre bisogna sottolineare come il boom del non convenzionale negli Stati Uniti è favorito anche dalla legislazione vigente nel paese, in particolare dal fatto che il proprietario del terreno dove vengono effettuate le perforazioni riceve direttamente le royalties. Quest’ultimo dunque ha un forte incentivo ad accogliere favorevolmente le compagnie energetiche.

Per quanto riguarda l’Italia infine, l’esperimento più importante sul gas non convenzionale coinvolge finora la Toscana. Nel 2008 infatti, sono state affidati alla compagnia inglese Independent Resources dei permessi di ricerca relativi al comune di Roccastrada (Grosseto), in località Ribolla. Si tratta di un progetto riguardante l’estrazione a bassa pressione di Coal Bed Methane (CBM), metano cioè intrappolato negli strati di carbone presenti nel sottosuolo e che rientra tra i gas non convenzionali.
Essendo il metano chimicamente legato al carbone, l’estrazione prevede l’asportazione dell’acqua dalla massa carboniosa, in modo da ridurre la pressione che tiene intrappolato il gas. Il pompaggio dell’acqua favorisce così il rilascio del gas verso il pozzo. La società inglese ha investito 6 milioni di euro solo per la fase esplorativa (a 50 milioni ammonterebbe invece il totale del progetto), mentre la produzione di gas prevista sarebbe di 3,6 miliardi di m3 in un periodo di circa 30 anni7.

Conclusioni

Il boom statunitense nella produzione di shale gas, ha alimentato in tutto mondo il dibattito sulle prospettive legate alle fonti energetiche non convenzionali. Con riserve di idrocarburi non convenzionali si intende una serie di composti tra loro molto diversi, ma accomunati dal fatto di richiedere tecniche di estrazione e lavorazione più complesse, costose (in molti casi economicamente non convenienti) e a maggior impatto ambientale. Nel categorizzarle ci si riferisce in particolare a quelle fonti che recentemente hanno mostrato concrete possibilità di sfruttamento e dunque importanti risvolti economici e geopolitici.
Dal punto di vista del petrolio non convenzionale si considera dunque specialmente lo shale oil, che rappresenta il prodotto del petrolio estratto da scisti e argille bituminose, e le tar sands (sabbie bituminose), cioè depositi sabbiosi a elevata porosità che contengono petrolio altamente denso e viscoso (il più grande accumulo di sabbie bituminose conosciuto si trova in Canada nella regione dell’Alberta). Riguardo invece al gas naturale, accanto allo shale gas, si annoverano tra le fonti non convenzionali il tight gas, estratto da sabbie e arenarie compatte attraverso tecniche analoghe a quelle adoperate per lo shale gas, e il Coal Bed Methane (CBM), citato nel caso di Ribolla. A queste vanno aggiunti anche gli idrati di metano. Si tratta di depositi solidi sottomarini costituiti da acqua, sotto forma di ghiaccio, e metano, intrappolato nel ghiaccio stesso. Lo scorso 12 marzo il Giappone ha reso noto di aver portato a termine la prima estrazione di gas derivante da idrati, al largo del mar del Giappone.

Recentemente dunque, stiamo assistendo, da un lato alla crescita esponenziale delle possibilità di sfruttamento di risorse non convenzionali sia petrolifere che di gas naturale, dall’altro a un aumento anche della produzione degli stessi giacimenti convenzionali, frutto dell’applicazione di nuove e più efficienti tecnologie. Nei decenni passati in molti avevano predetto la fine imminente del petrolio, con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate. Le previsioni in tema di energia sono sempre azzardate, non basta infatti confrontare i dati relativi a consumi, produzione e riserve per poter delineare un quadro certo per gli anni a venire. La pecca più grande di tali previsioni è, in particolare, che tendono a trascurare il fattore innovazione tecnologica. Per questo motivo, la fine dei combustibili fossili non deve necessariamente essere collegata al loro esaurimento. È più probabile invece che verrà sancita dalla scoperta di tecnologie più efficienti e a minor impatto ambientale. Le energie rinnovabili hanno ancora rese relativamente basse (ovviamente il discorso tecnologico vale anche per esse), mentre occorrono diversi anni per implementare una centrale nucleare.

Tra le categorie che compongono i consumi di energia e cioè trasporti, industria, abitazioni ed energia elettrica, quest’ultima appare la più flessibile alla differenziazione energetica. Mentre invece soprattutto i trasporti, rimarranno almeno per i prossimi anni ancora strettamente legati all’utilizzo dei combustibili fossili. Per questo, dando per probabile un aumento dei consumi mondiali di energia, spinto sopratutto dai paesi in forte espansione economica, lo scacchiere energetico internazionale rimarrà dominato per il prossimo futuro dai combustibili fossili, con il gas naturale, shale e non solo, che potrebbe assumere un ruolo di primo piano. Dunque petrolio, gas naturale e carbone continueranno, almeno per il prossimo decennio, ad avere un peso consistente nel determinare gli equilibri geopolitici tra i principali attori internazionali.


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