da Il Paese Nuovo, 2012-04-25
Cavami da le piume gli insulti lo sfrenio
la velocità indifferenziata che era danza
o salto, che ormai non muove semplicemente
mi rende probabile
Claudia Ruggeri, lamento dell’uccello colpito, Inferno minore
È possibile un altro silenzio? Una stanza vuota dove riversare se stessi, scrivere versi attorcigliati al volto, alle mani, fare presenza, dell’ignoto, nelle parole. È possibile un discorso diverso, che ruoti attorno ad altro senza connessioni da districare, ma solo con l’impressione che nel verso scaturisce e nel verso s’istituisce? Di Claudia Ruggeri, morta suicida nel 1996, restano una manciata di poesie avvolte in quell’Inferno minore pubblicato da peQuod nel 2006, volume che al suo interno accoglie in apertura i primi componimenti poetici racchiusi in quel lasso di tempo fra i suoi 15 e 22 anni, fra il 1982 e il 1989, altri ancora fra i 23 e i 29 anni, poi la raccolta Inferno minore, che dà il titolo all’edizione curata da Mario Desiati, e le Pagine del travaso, ultimo incompleto sforzo dell’autrice. Nella primavera del 2005 la famiglia ha donato le carte della poetessa all’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto G. P. Vieusseux. Il fondo, si legge nel censimento a cura di Beatrice Biagioli, consta di una scatola al cui interno sono raccolti documenti che accolgono uno spaccato cronologico che va dal 1986 al 2004; di Claudia Ruggeri hanno scritto: Mario Desiati, Enzo Mansueto, Mauro Marino, Rossano Astremo, Donato Valli, Arrigo Colombo, Alessandro Canzian, Stefano Donno, Irene Ester Leo, Walter Vergallo, Antonio Prudenzano e altri ancora. Sul web sono raccolti, da Elio Scarciglia e Maria Teresa Del Zingaro Ruggeri, tutta una serie di documenti, testi critici, un accurato spaccato cronologico, sul sito dedicato alla memoria di Claudia Ruggeri, http://www.claudiaruggeri.it.
In una lettera del marzo 1990, Franco Fortini si rivolge alla poetessa salentina invitandola a ripulire quella che nella sua scrittura era una poesia, nella definizione di Fortini, ingioiellata, ricca di citazionismo, immolata sul pastiche letterario sino allo sfinimento, lungo un percorso di accumulo serrato di figure retoriche, ritmi incalzanti, che incastrati nell’avvicendarsi quasi collassato di tutto un sistema sovraccarico, espongono la poetica della Ruggeri ad una sorta di auto-annullamento in virtù di un soffocamento letterario, quasi a ricalcare il sovrannumero delle facce, delle forme, dei racconti di pietra che nel barocchismo salentino dalle facciate delle chiese si protendono al nulla, nel vuoto dello spazio e della loro disposizione eccessivamente carica, strabordante, oltre il limite ultimo della sopravvivenza delle forme. Si assiste, nell’opera di Claudia Ruggeri, ad una sorta di poetica barocca intagliata in uno spaccato postmoderno dove la citazione, il continuo rimando, per uno sterminato pastiche, tramutano in regola la reinvenzione del linguaggio, attraverso una condizione ridondante della parola. Il plagio, scrive Rossano Astremo su Nuovo Quotidiano di Puglia del 5 febbraio 2007, è “appropriamento dell’immaginario di maestri a lei vicini”, in quella che sembra porsi, nella poetica di Claudia Ruggeri, come una proiezione, un sussistere del linguaggio poetico che in questo si realizza, in un transfert freudiano dove è la proiezione dello sguardo inconscio dell’autrice sul continuo dialogare con quelli che furono i suoi padri letterari, nello spostamento dell’identificazione di una dimensione genitoriale della sua poetica che tende lo sguardo a Dante, Carmelo Bene, Dino Campana, Beckett, Shakespeare, Melville. Nello spaesamento di un dialogo inconsolabile la poesia sanguina, accende una scintilla di conversazione e spostamento nella proiezione di quelli che erano i suoi interlocutori giornalieri, gli autori già citati e altri ancora, in una scansione poetica dell’inconscio umano. C’è un puer che cerca in altro la sua condizione introvabile, in quella dimensione del discorso e del suo messaggio, in un districarsi eclettico tra le forme della narrazione poietica, in quella condizione per cui è lei stessa a tornare vestita dei panni dei suoi padri letterari, per poi rivolgersi in sé, in un ripiegamento dialettico che è travaso e semenza di una proiezione su sé, quando il gioco dei rimandi non può più essere altro e conserva vivida, nell’auto-flessione letteraria, la condizione interiore, di sovrainvestimenti letterari che scendono nel fondo della sua condizione umana.
Francesco Aprile
2012-04-23
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