Il punto in cui la linea prende la tangente per la deriva
Creato il 08 giugno 2015 da Malvino
In
tempi in cui il modello demagogico sembra essere considerato da tutti
i protagonisti della vita politica come il più efficace strumento
per raccogliere consenso, la differenza tra quanti concorrono a
conquistare un mercato con un prodotto che è sostanzialmente uguale
a quello dei propri concorrenti può essere fatta solo dalla
confezione nella quale questo è offerto al pubblico, poco importa se
come scelta estemporanea o come risultato di uno studio preparatorio,
perché in ogni caso l’imballaggio
ha sempre bisogno di aggiustamenti alla risposta data dal mercato. In
generale, potremmo dire che un soddisfacente grado di riconoscibilità
dell’offerta,
che di per se stessa è fattore promozionale, sia raggiunto quando i
tratti caratteriali del demagogo diventano tanto significativamente
peculiari da poter essere caricaturizzati in favore di quella che la
pigrizia mentale definisce satira politica, e che in realtà è il
più affidabile attestato che all’offerta
corrisponda ormai una domanda e, in sostanza, che quella particolare
offerta di demagogia ha conquistato una discreta fetta di mercato.
Ricorrendo a un’ellissi,
direi che oggi, in Italia, a certificare
la commerciabilità di un’offerta
demagogica è Crozza.
Nelle sue imitazioni di Berlusconi, di Renzi,
di Salvini, di Grillo, quel che è comune a tutti va interamente
smarrito, per lasciar spazio solo alla deformazione umoristica dei
rispettivi caratteri, cioè delle diverse confezioni in cui è posto
in vendita lo stesso prodotto: l’adulazione
di un popolo ormai da tempo degradato a plebe al fine di strappargli
il consenso ad interpretarne la sovranità con quel tratto dispotico
che troverebbe piena legittimazione in tale investitura. Ben si
spiega, allora, come anche l’imitazione
di De Luca non possa che esaurirsi nell’enfasi
posta sui connotati più pittoreschi del personaggio, trascurando del
tutto quel «chi
vince governa» di cui De Luca si è fatto scudo prima, durante e
dopo le elezioni regionali del 31 maggio per pretendere di essere
ammesso alle primarie nonostante il codice etico del Pd non glielo
permettesse, di candidarsi ad una carica dalla quale una legge dello
stato l’avrebbe
comunque sospeso e di poter esser certo che la sospensione avesse peso solo aleatorio mettendo al suo posto un prestanome
investito dalla carica di vicegovernatore.
Certo, non
spetta a Crozza segnalare in quel «chi vince governa» ciò accomuna
tutti i ritratti della sua fortunata galleria, di fatto pare che
anche chi dovrebbe farlo si attardi per lo più a marcare le
differenze tra un demagogo e l’altro,
quasi fosse scontato che la sovranità appartenga al popolo allo
stesso modo in cui qualcuno possegga qualcosa che possa cedere a chi
voglia perché questi possa a sua volta disporne a proprio piacimento. A ben
vedere, è questo modo di intendere la sovranità che spiega perché,
sulla diagnosi che la democrazia abbia in se stessa l’embrione
della tirannide, concordino sia i nemici della democrazia sia quelli
della tirannide. E, a mio modesto avviso, quel che consente agli uni
e agli altri di essere scettici sul fatto che una democrazia possa
avere altra sorte, pur con diversa disposizione d’animo (chi
contento, perché lo aveva sempre sostenuto, chi afflitto, e in fondo
rassegnato), sta in quel
secondo capo del primo articolo della Costituzione italiana che a
tanti sembrerebbe consentire ogni genere di deriva.
Se infatti «la
sovranità appartiene al popolo»
– si argomenta – il popolo non può disporne a proprio
piacimento? È vero, certo, che «la
esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»,
ma cosa impedirebbe al popolo di dar mandato a Caio o a Tizio per una
revisione costituzionale? In fondo, ad essere intoccabile non è
soltanto la forma repubblicana?
Bene, io penso che tutto sta nell’infelice
scelta di un termine come «appartenenza»,
che nell’intendimento
di scrisse la Costituzione aveva l’accezione
di «ciò che
fa parte» – e tra poco spiegherò in che senso, e perché se ne
possa esser certi – poi corrotta in quella di «possesso».
In
sostanza, oggi si è portati a ritenere che il primo articolo della
Costituzione consenta ogni genere di avventura populistica o
plebiscitaria, purché un avventuriero riesca a convincere la
maggioranza del popolo italiano, anzi, neppure quella, né quella
degli aventi diritto al voto, ma solo la maggioranza dei votanti. In
pratica – e non mi si venga a dire che vado troppo lontano dalla
realtà – basterebbero una dozzina di milioni di italiani a dare
piena legittimità a un demagogo per fare carne di porco della
democrazia, semmai avendo la premura di lasciarne intatta la forma.
Non è così.
Comincerei col dire, infatti, che alla formula del
primo articolo della Costituzione si è arrivati in modo assai
singolare. L’accordo pressoché unanime della commissione
incaricata di redigerlo era sulla seguente formula: «La sovranità
dello stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico
formato dalla presente Costituzione e dalle altre leggi ad essa
conformi. Tutti i poteri sono esercitati dal popolo direttamente o
mediante rappresentanti da esso eletti». In tutta evidenza, il
principio della sovranità popolare non è affatto dominante, tanto
meno se può inferire che sia il popolo a generare la Costituzione
dalla quale lo stato dipende.
In pratica, non è il popolo ad essere
titolare della sovranità: è lo stato ad essere sovrano, e non la
Costituzione a generare tale sovranità, limitandosi invece solo a
darle assetto, margini, equilibrio tra le parti che la amministrano.
Basta rileggere gli interventi di Dossetti, Moro, La Pira e perfino
di Togliatti, che pure avrebbe potuto essere sensibile ad una
«sovranità popolare», per capire che tra i Padri costituenti era
ben saldo il rifiuto di un principio che sembrava avesse il marchio
del giacobinismo, con quanto di pericoloso al giacobinismo è
allegato in termini di deriva dispotica. Tutti contrari a questo
assunto, tranne il monarchico Lucifero d’Aprigliano, il
quale provocatoriamente sfidò gli altri costituenti ad essere
coerenti fino in fondo: se era venuta meno la figura di un re che fin
lì aveva personificato la sovranità dello stato, si fosse tanto
onesti nel trasferire quella sovranità al popolo che aveva deciso di
ghigliottinarlo. Sfida che fu respinta con forza e perfino con
sdegno, anche se ebbe l’effetto di far rivedere la prima formula,
con la proposta di una sovranità che «risiede nel popolo», poi
bocciata in favore di quella che recitava di una sovranità che
«emana dal popolo», ma con l’accento, posto da Tosato e da
Togliatti, sul fatto che la sovranità fosse prerogativa dello stato,
e che la Costituzione ne fissasse i limiti.
I termini della
discussione si riproposero invariati anche nella discussione
dell’Assemblea del 22 marzo 1947, che però ebbe uno sviluppo tanto
serrato da far riproporre, e far accettare come liquidatoria di ogni
ambiguità riguardo alla natura del mandato che alla Costituente era
stato affidato dal popolo, la formula della sovranità che
«appartiene al popolo». In definitiva, passava il principio di una
sovranità che è dello stato, sì, ma che nella Costituzione di cui
il popolo è attore trova forma, espressione e vincoli: si assumeva
che il popolo avesse «parte» dei limiti della sovranità dello
stato.
Da qui a immaginare che la sovranità fosse una proprietà che
il popolo avesse piena libertà di alienare in favore di un
despotuccio
per due quinti scilinguagnolo, e per il resto spocchia, villania e
somaraggine, ne doveva correre. Perché, poi, si arrivasse a
immaginare che il popolo desse mandato ai propri eletti di varare una
legge come quella che porta la firma di Paola Severino, perché una
patetica macchietta di energumeno potesse usarla come carta per
pulircisi il culo, in virtù dei voti avuti per essere eletto,
bastava poco più d’un
niente. E ora a questo stiamo: la sovranità popolare è un cazzo
diventato così storto che oggi il popolo può usarlo solo per ficcarselo
in culo.
[segue]
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