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Il punto sull'Europa

Creato il 13 marzo 2014 da Ilcanechesimordelacoda
scritto da Mario Lucio Genghini | Yahoo Finanza
Le elezioni europee 2014 si avvicinano. Mentre i partiti euroscettici continuano ad incrementare i propri consensi nei sondaggi, si succedono tutta una serie di studi sulla crisi della moneta unica del continente. E, inevitabilmente, quando si analizzano criticamente i problemi dell’euro non possono mancare severe critiche nei confronti dello Stato più solido dell’Unione: la Germania.
A “bacchettare” Berlino è arrivato, in questi giorni, uno studio presentato dal Centre for European Reform (Cer). L’analisi ha acquisito subito una certa rilevanza agli occhi degli osservatori e degli esperti perché presentata da un think tank, con sede a Londra, che non potrà di certo essere tacciato di antieuropeismo.
L’indagine si basa sulla disamina dei tassi cambio reali dei paesi membri dell’eurozona a partire dal 1989 (anno di nascita della moneta unica). Le conclusioni a cui giunge l’istituto britannico sono le seguenti: se da un lato è corretto affermare che negli ultimi 25 anni non ci sono state variazioni nominali del tasso di cambio nominale, d’altro canto si deve evidenziare che variazioni reali si sono verificate. Ovvero, variazioni del tasso al quale si comprano beni o servizi prodotti in un paese in termini di beni o servizi di un altro paese.
Le variazioni in termini reali sono avvenute perché un paese è riuscito ad esportare di più, in virtù della sua competitività, verso il resto del mondo. Ed è su questo punto che il Cer, giudica l’atteggiamento tedesco poco corretto. Perché? Dal 1999 al 2011, la Germania avrebbe abbassato il proprio tasso di cambio reale del 20%, salvo un lieve apprezzamento nel periodo 2012-2013. Inoltre, i tedeschi sarebbero entrati nella moneta unica con tasso di cambio ben al di sotto di quello registrato nel 1980.
Come si sono comportati, invece, Italia e Spagna? Entrambe hanno dovuto sostenere un deciso apprezzamento dei tassi di cambio fino al 2008. Poi li hanno ridotti energicamente, al punto che oggi l’Italia avrebbe un tasso di poco superiore a quello del 1999, mentre la Spagna lo avrebbe del 9% in più. Da ciò, si inferisce che il nostro paese rispetto a 15 anni fa non avrebbe perso molta competitività nei confronti della Germania.
Gli italiani, a differenza dei tedeschi, sono entrati nell’euro con tasso reale di cambio più apprezzato rispetto al 1980, nonostante la crisi del 1992 e le svalutazioni degli anni ‘80. Atteggiamento quello del nostro paese, dunque, opposto a quello della Germania. Questa, infatti, è entrata nell’euro sostenendo che il proprio tasso di cambio fosse sceso, allo scopo di tagliare i costi delle imprese. Dunque, Berlino non ha fatto altro che svalutare, tenendo a freno l’inflazione attraverso una strategia di moderazione dei salari.
Questa, secondo il Cer, sarebbe la ricetta giusta anche per il paese dell’Europa del sud. Ovvero puntare sull’export verso i paesi dell’area extra-eruo. Tuttavia, le cose non sono così semplici. Nel 2013 si è verificato, nell’eurozona, un surplus delle partite correnti del 2,5% del pil, mentre nel 2008 si registrava ancora un disavanzo di 85 miliardi di euro. Ciò fa sì che l’euro si apprezzi contro le altre valute. L’apprezzamento, a sua volta, rende non facile l’esportazione di merci soggette alle variazioni di prezzo, come nel caso di quelle dell’Europa del sud.
Forse l’unica soluzione sarebbe quella della perdita della competitività della Germania e della svalutazione interna da parte dei Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna). Magari accompagnando il rilancio della domanda interna con un alleggerimento della pressione fiscale e con un piano di investimenti pubblici. Ma la Germania potrebbe mai essere d’accordo con questa soluzione?

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