Il punto stavolta, secondo l'Economist, è che ha avuto almeno due atteggiamenti, che gli hanno ulteriormente complicato la vita: il primo, il non aver tenuto fede ai suoi moniti, che ha comportato la perdita della deterrenza (è il caso per esempio del non intervento in Siria dopo il superamento della red line "armi chimiche"; o la minaccia di sanzioni dure contro Mosca, che invece nei fatti non sono mai arrivate); in secondo luogo, secondo il magazine inglese, ha la colpa di aver sbagliato gli alleati da portarsi a fianco nei tavoli diplomatici internazionali (qui il riferimento va a Putin, che per dirlo in modo chiaro, l'ha più volte fregato, facendo una faccia a tavola e l'altra quando si alzava - vedi proprio il caso della Siria, quando si proponeva come colomba della pace, mentre da Tartus continuava, e continua, a fornire armi ad Assad; insieme all'Iran, per altro, con cui Obama sta intavolando un complesso dialogo sullo smantellamento nucleare garantendo nuove aperture in cambio di promesse e poco più).
Colpe proprie, complicazioni cercate, ma anche qui una sorta di assoluzione arriva: gli storici alleati occidentali sono stati spesso ambigui, e altrettanto spesso ha dovuto combattere isterismi e nervosismi del Congresso.
Di una sorta di revisione sulla politica estera di Obama, si è occupato in questi giorni anche il New York Times, dando un giudizio fondamentalmente positivo - ammettendo, comunque, alcuni errori e incoerenze. Nell'editoriale del Nyt - tradotto qui dal Post - si riprendono fondamentalmente un paio degli argomenti di cui parlava l'Economist: e cioè, il problema degli alleati occidentali e del Congresso, che scagionano in parte le azioni spesso timide del presidente. Ma si ragiona anche su un concetto di fondo molto importante e spesso sottovaluta da chi - me per primo - non vive negli Stati Uniti e giudica la politica estera americana non per quella che è, ma per quello che vorrebbe fosse nell'interesse generale di un certo lato di mondo. Il punto è che ad Obama è stato richiesto di essere il leader del cambiamento, ragion per cui se si analizza la sua attività internazionale in modo non ideologico, si capisce che quel che sta facendo è quello che il suo popolo - o elettorato - vuole e voleva. Un passo indietro, diciamo. Insomma è quello per cui è stato scelto e riconfermato: sicuramente non sta mantenendo forte la posizione di predominio globale che l'America si è guadagnata nel tempo (sarà da vedere, comunque), ma lo sta facendo perché non ha razionalizzato il tutto ad azioni unidirezionali, interpretazioni nette, semplificazioni. Quello che in questo momento la politica estera degli Stati Uniti è, rappresenta semplicemente il frutto di questa visione: vedere le cose sicuramente in modo diverso da quello di Bush - frutto anche di una situazione complicata, complessa, intricata, in cui il mondo si trova. Visione che ovviamente, si porta dietro conseguenze di questo genere, innegabilmente: ma tant'è.
Secondo il New York Times, invece, quello che è indiscutibilmente contestabile, è il metodo comunicativo con cui Obama affronta certe questioni: troppo spesso quando il presidente descrive le sue scelte «usa parole ed espressioni che lo fanno sembrare debole, poco concentrato e passivo», lontano dal ruolo che un leader dovrebbe avere in quando si tratta di politica estera, e cioè quello di «ispirare la squadra».