Sac. Dolindo Ruotolo
Apostolato Stampa - Napoli – Riano – Sessa Aurunca 1984
Prefazione
Quando si parla del Purgatorio, non di rado lo si presenta come un inesorabile e poco meno che spietato atto della divina giustizia.
Certamente il Purgatorio è un luogo di tormenti penosissimi, di fronte ai quali le pene della vita presente sono quasi fiori di campo circondati da spine. Ma le pene del Purgatorio, per quanto gravissime, sono un'amorosa purificazione, per rendere l'anima capace del pieno godimento e della piena felicità del Paradiso.
E’ una vera contesa di amore: Dio che ama l'anima, la purifica per amore. L'anima che ama Dio e tende a Lui, è contenta di purificarsi, pur soffrendo amaramente, perché pondera tutta la gravità delle proprie macchie, che le impediscono il pieno godimento nell'unirsi a Dio. E’ dunque una vera contesa di amore tra Dio e l'anima, ripetiamo, ed è necessario eliminare dalla concezione del Purgatorio, tutte quelle idee personali, che lo fanno concepire come una vendetta della divina giustizia, e come un carcere terribile, nel quale l’anima geme come prigioniera di un ergastolo implacabile.
Chi direbbe crudele colei che prepara una sposa alle nozze gioiose, sol perché nell'ornarla, per necessità di amorosa cura, la tormenta? E chi direbbe schiava di un destino spietato la sposa che è come legata al luogo ed agli strumenti che penosamente le danno bellezza? Chi potrebbe godere di un bellissimo panorama con l'occhio cisposo, od anche con un peluzzo che lo annebbia e lo infastidisce? Sarebbe crudeltà mettere nell'occhio il bruciante collirio, o svoltare penosamente la palpebra per togliere il peluzzo? Chi potrebbe assidersi con gioia ad un banchetto con lo stomaco rivoltato dall'acidità? E chi giudicherebbe una crudeltà dargli la medicina amara che lo rende capace di gustare la mensa?
Dio è amore, è infinita carità, e se noi pellegrini della valle di lacrime, non lo consideriamo nella luce del suo infinito amore, non lo amiamo veramente. Se il timore di Dio, che è dono dello Spirito Santo, ossia dell'Eterno Amore, non è ispirato dall'amore, non genera nell’anima l'amore, ma solo il terrore.
Abbiamo perciò considerato il Purgatorio nella luce mirabile dell'amore di Dio per l'anima e dell'anima per Dio, e prospettando l'incontro dell'anima con Dio, dopo la purificazione, la gloria e la felicità del Paradiso. Abbiamo voluto fare intendere, con le povere e cecuzienti luci umane, qual è la smagliante vittoria della contesa di amore fra Dio e l'anima nel Purgatorio. Di fronte all'amore, più che di fronte al terrore di pene terribili, l'anima sente ancora più il dovere di menare vita santa sulla terra, per essere degna del divino amplesso nell'eterna felicità.
Napoli, agosto 1959 L'Autore
Parte prima
Il Purgatorio: contesa di Amore tra Dio e l'Anima.
Cap. I
Dove va l'anima
L’anima si stacca dal corpo...
La morte è il castigo del peccato, comminato da Dio nell'Eden, ed è comune a tutti gli uomini. Per quanto si possa essere miscredenti, non si può sfuggire alla realtà della morte. Tutti dobbiamo morire, lo sappiamo, ma raramente troviamo chi se ne preoccupi, anche quando si è giunti all'estrema vecchiezza.
Io pure sono vecchio, ho 77 anni, so di essere vicino alla morte, ma non sento in me la morte, sento la vita, anche quando, per la vecchiezza, mi accorgo di non avere la forza di fare certe cose. La ragione di questo fenomeno interno, sta nell'anima e nella sua immortalità. Noi abbiamo l'anima che è immortale, e come tale è sempre giovane.
Se notate, noi abbiamo l'impressione di una doppia fisionomia: quando ci consideriamo in noi stessi, abbiamo l'impressione di avere un volto e un corpo assai diverso da quello che è per la vecchiezza. Se ci vediamo nello specchio o in fotografia, abbiamo una sorpresa sconcertante, perché notiamo il deperimento e la inesorabile caduta del corpo. E’ questa una fisionomia tanto diversa da quella che sentiamo internamente. Anche questo fenomeno è una testimonianza della realtà dell'anima immortale.
Il corpo è uno strumento dell'anima, come i ferri del proprio mestiere sono strumenti delle mani che agiscono e dell'anima che dirige l'azione. Quando lo strumento è corroso e serve malamente, si cerca di restaurarlo. Quando non serve più, lo si elimina. Voi, per es., scrivete con il pennino innestato alla penna. Se il pennino è buono, e l'asta lo sorregge bene, voi scrivete facilmente. Se il pennino... si fa vecchio e scrive male, voi tentate di aggiustarlo, e tentate di riavvicinare... le punte aperte, che non scrivono più, e potete tirare ancora avanti, non senza scomodo, perché il pennino o s'inceppa sulla carta, o prende male l'inchiostro. Quando finalmente ad un nuovo tentativo di aggiustarlo, esso si spezza, allora lo buttate via nei rifiuti, dove s’arrugginisce. Potrebbe ridiventare pennino, solo quando fosse rifuso nella massa di acciaio che si liquefa nel forno, e sarebbe come una resurrezione dalla morte.
Quest'esempio fa capire che cosa è la nostra morte naturale: il corpo, strumento dell'anima, decade, comincia a diventare inetto. Si cerca di curarlo, e può servire ancora, ma meno di prima. Poi decade ancora, fino al gradato disfacimento degli organi, finché, non potendo più essere strumento dell'anima, questa lo abbandona, e sopraggiunge la morte. Verrà la resurrezione del corpo, è di fede ed è la nostra speranza, quando la potenza divina rianimerà anche un suo più piccolo residuo, e, come seme di morta pianta, risboccerà da quel residuo come da germe che rivive.
Gli sforzi fatti per sfuggire alla morte con i medici e le medicine, spesso l'accelerano, come gli sforzi fatti per accomodare un pennino spesso lo spezzano. Il corpo diventa sempre più inadatto all'attività dell'anima; muore già a parte a parte, a misura che gli organi interni si disfanno. Il cuore comincia a cedere, la circolazione si altera, il respiro diventa affannoso perché i polmoni mancano di forza, diventa stentato, e per lo stento si accumula l'acido carbonico nell'organismo, avviene il collasso, avviene la morte, l'inesorabile morte.
E l'anima che fa? Siccome essa informa tutto il corpo e ciascuna parte del corpo totalitariamente, rimane tutta nel corpo e col corpo, finché c'è anche una cellula sola ancora viva, cioè ancora capace di essere attivata dall'anima. Dopo, quando anche questa cellula diventa inetta, e col corpo si avvia al disfacimento, allora l'anima si distacca dal corpo.
I singoli dolori del corpo infermo sono dovuti non solo alla sensibilità degli organi, la quale per i nervi, si rifonde nel cervello, e per il cervello nell'anima che lo vivifica, ma sono dovuti anche alla mancanza dell'azione dell’anima, quando non può agire completamente per gli organi del corpo. Quei dolori sono come una morte parziale che può passare dal dolore allo spasimo, come avviene, per es., quando ci si cava un dente cariato. La morte perciò è un dolore totale, ed il distacco dell'anima dal corpo è uno spasimo terribile, che è temperato solo dall'agonia.
Sembrerebbe un paradosso, eppure è così. La mancanza del respiro, accumula nei polmoni e quindi nel corpo, l'acido carbonico, e questo ha una funzione anestetizzante, per cui i dolori si avvertono meno. Perciò il fare nell'agonia di un morente iniezioni eccitanti, di canfora e simili, è un errore che può causare al morente spasimi terribili per il risveglio della sensibilità, e questo risveglio potrebbe condurre il morente alla disperazione.
Come filugello che esce dal bozzolo
L'anima è tutta spirituale, ed esce dal corpo nella pienezza della vita dello spirito, come filugello che esce dal bozzolo e lo lascia abbandonato. Esce nella perenne giovinezza dell'immortalità, intelletto e volontà, che cercano il loro oggetto: l'eterna Verità e l'eterno Bene. E’ fuori del mondo, e, come razzo spinto in alto, tende a Dio solo, unico suo fine.
L'anima però non è come Dio l'ha creata nell'infonderla nel corpo, non è come Gesù l'ha redenta, ma porta con sé le proprie responsabilità e, queste nell'istante stesso del distacco dal corpo, appaiono non nella nebulosa luce della propria coscienza, ma nella splendente luce dell'eterna Verità.
La nostra coscienza è elastica, e si presta a giustificazioni che non rispondono alla realtà, perché noi, per il nostro naturale orgoglio, tentiamo sempre di giustificarci e di apparire onesti, se non santi addirittura. A Napoli dicono, con espressione scultorea, che la coscienza è comme 'a pellecchia, cumme 'a tira accussi se stennecchia, ossia, in italiano: « la coscienza è come la pelle, come la tiri così si distende ». Ma nella luce della Eterna Verità, l'anima si riconosce per quello che è, con un'evidenza che non può trovare scuse o giustificazioni.
E’ una sorpresa che è terribile se l'anima è in peccato mortale, perché il peccato la rende orrendamente sfigurata; è una sorpresa sconcertante per la confusione, se l'anima è in grazia di Dio, ma è macchiata di piccole colpe, ed è deformata dalle imperfezioni. L'anima dannata è come un peso che tende ad inabissarla, pur sentendo la naturale spinta verso Dio; l'anima in grazia è come un razzo che è spinto verso l'alto, ma che ha un razzo vettore che non la può spingere fino a Dio, perché non funziona, è inceppato, non scoppia. L'anima perciò tende non all'abisso, che è il contrapposto della gloria, ma tende a purificarsi, e riguarda come un dono il potersi purificare, sia pure con spasimi gravissimi.
L'anima nello stato di peccato è così lontana da Dio, che rimane in uno stato di morte spirituale; l'anima cade nell'abisso, come in una nuova spaventosa vita, nella quale non trova che il vermicare delle sue colpe, che tutta l'avvincono tormentandola. Perciò si genera in lei l'odio, e i sette peccati mortali la rendono infelicissima, perché la seguono come se fosse rivestita di un nuovo corpo, carico di tutte le infermità. Conserva però il naturale slancio di creatura che tenderebbe a Dio, ma questo naturale slancio non può raggiungere la meta, che per l'anima diventa tormentosa e ripugnante, e perciò non le rimane che la disperazione e il sempiterno orrore. E’ come una sostanza putrefatta, che cambia stato, non è più dolcissima crema, ma è verminoso ammasso.
L'anima in grazia ma ancora macchiata, è come colomba dalle ali spezzate, che non può volare, ma tende a Dio con l'amore, per lo stato di grazia che l'attrae a Lui, e cerca il modo di purificarsi, implorandolo dalla sua misericordia. L'anima dannata è una miserabile viatrice che è giunta al termine eterno del suo pellegrinaggio. L'anima in grazia è una viatrice che è giunta al termine della vita terrena, ma nella purificazione ottiene di essere ancora viatrice, per purificarsi in un penoso pellegrinaggio di amore. Il dannato è nell'eterno dolore; l'anima purgante è ancora nella via del pellegrinaggio, e ancora nel tempo, e aspetta il giorno beato, dove trova l'eternità nella gloria e nell'unione piena con Dio.
Per questo il Purgatorio è ancora nel tempo, e la purificazione è computata col tempo.
(continua)