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Il Purim e l’arte di lasciare andare

Creato il 05 marzo 2015 da Clach

Il Purim e l’arte di lasciare andareLa sveglia è puntata per le 6.10, ma alle 4.00 sono sveglissimo e cercherò invano di riaddomentarmi prima che suoni. Oggi mi aspetta una lunga e faticosa giornata di viaggio, dopo più di un mese stanziale, una frontiera difficile da attraversare, incertezza su orari e mezzi di trasporto e non conosco chi mi ospiterà stanotte. Nonostante lo abbia fatto innumerevoli volte in questi anni, alzarmi presto la mattina e i viaggi lunghi mi rendono sempre nervoso: le frontiere e le stazioni dei bus sono posti dove devi tenere l’attenzione al massimo e la privazione di sonno non aiuta.

Dopo aver salutato velocemente l’unica persona dello staff del Rocky Mountain già sveglia, alle 6.45 sono sul minibus che da Wadi Musa mi porterà alla frontiera di Aqaba. Appena scendo dalla stazione di Aqaba mi si rompe una spalla dello zaino, ma per fortuna la trattativa col taxi che mi porta alla frontiera è veloce, e dopo averci provato con 10, poi con 7, accetta di portarmi al prezzo onesto di 5 Jd.

All’entrata della frontiera in Israele ci sono da passare un paio di controlli e interrogatori minuziosi al limite dello sfinimento, che vanno via lisci perché non ho nulla da nascondere, ma tolgono un po’ di energie.

Appena esco dalla frontiera di Eilat, l’addetta mi dice che devo prendere un taxi, perché non ci sono bus. Non le credo e le mostro un cartello che sembra proprio una fermata di bus. Però mentre controllo su internet e mi rendo contro che effettivamente il bus c’è solo per l’altra frontiera, quella di Eilat con l’Egitto, arriva un taxista, che mi ripete che non ci sono bus e mi tocca accettare il passaggio.

Sono quasi le 10.00 e mi dice che c’è un bus in partenza in pochi minuti. Al momento di pagare mi ritrovo un conto sospetto di 37 shekel, quando un mese prima avevo pagato solo 30 in un giorno festivo.

Gli chiedo quale supplemento mi ha aggiunto e lui mi dice la valigia, che deve farlo per legge.

Non gli credo e gli chiedo la ricevuta, mentre altri taxi ci fanno fretta col clacson. Mentre scendo, già stanco e assonnato per lo stress, do un’occhiata al sedile per assicurarmi che non manca niente.

Cammino rapido alla biglietteria, dove mi dicono che il primo autobus è alle 11, nonostante ce n’è uno in partenza, che evidentemente deve essere pieno. Vabbé, accetto fatalmente di dover aspettare un’ora che, grazie al Wi-Fi gratis, passerà in fretta.

Sono le 11 meno 10 e mentre mi preparo a salire sul bus, mi rendo conto che non ho più il borsello a tracolla dove normalmente tengo il passaporto, che avevo tirato fuori e messo in tasca per pagare il biglietto del bus, ma nel quale c’era anche una delle mie carte di credito e una cifra tra i 300 e i 500 euro in contanti.

Posso averlo lasciato solamente alla frontiera o più probabilmente sul taxi, anche se a pensarci bene adesso, avrei potuto anche appoggiarlo al bancone dei biglietti della stazione dei bus.

Cerco la mia ricevuta del taxi per vedere se c’è un telefono..e anche la ricevuta è sparita!

Vado alle informazioni chiedendo se c’è un numero della frontiera da chiamare e l’addetta me ne dà uno, anche se non può chiamare per me. I telefoni pubblici accettano solo carte prepagate e l’autobus sta imbarcando. Decido che non vale la pena provare a tornare alla frontiera e salgo sul bus.

Ogni giorno mi impegno per risparmiare i centesimi e basta un momento di distrazione per mandare gli sforzi di mesi a puttane!

Chi mi conosce sa quanto sono distratto e perfezionista. Non è la prima volta che faccio una cazzata del genere e non sarà purtroppo l’ultima. Ma il fatto che nessuno più di me non riesce a perdonarsi per queste clamorose defaillances, che so che mi ripeterò quanto sono un coglione e fustigherò almeno un centinaio di volte al giorno per il prossimo mese o due, non impedirà che ci ricadrò.

Quando piove, diluvia.

E in un momento personale difficile come questo, dove non me ne va bene una da mesi, dove l’attenzione maniacale a spendere il minimo è dettata dai risparmi che si vanno esaurendo, mentre monta la legittima preoccupazione di chi da anni si sta sforzando di trovare un lavoro, un qualsiasi lavoro del cazzo, qualcuno che mi dia fiducia a fare qualcosa diocristoallahbuddahkrisna, buttare via i soldi in questo modo è davvero difficile da accettare.

L’ho fatta lunga con i dettagli più che per cercare giustificazioni che non ci sono, (sono un pirla, per quanto mi sforzi di non esserlo), per aiutarmi a tirarmi fuori questo demone.

Ma la vera storia comincia adesso.

Mentre cerco di tirarmi su il morale, pensando che sto per iniziare un ritiro di meditazione, che ho appena finito di tradurre un libro sul concetto “dell’imparare al lasciare andare”, che nell’ora che ho appena trascorso su internet ho letto un interessante articolo sull’arte di “don’t give a fuck”, sul bus mi si siede accanto un bel ragazzo, che però, poveraccio, ha due moncherini al posto delle mani.

Lo sento parlare al telefono con accento argentino e quando gli chiedo di dov’è, me lo conferma. Ivan, da Puerto Iguazù, vive a Eilat da 6 anni e fa immersioni in apnea, da solo, fino a 50 metri!

Ivan è una benedizione che mi aiuta a rimettere subito tutto in prospettiva: vedere un ragazzo così che va ben oltre i limiti della natura e di qualunque sfiga gli è capitata, mi aiuta a lasciare andare il senso di colpa per quello che mi è successo.

Immediatamente gli confesso il mio stato d’animo e gli chiedo di poter usare il suo cellulare per provare a chiamare la dogana. Ci proverò un paio di volte durante il tragitto, senza che dall’altra parte della cornetta, nessuno risponda. E penso fatalmente che la ricevuta del taxi perduta è il segno del destino che quel borsello, con tutti gli euro che c’erano dentro, non lo rivedrò più.

Con Ivan chiacchiero su cosa voglia dire vivere in Israele, del mio rispetto per questa gente che vive assediata da sempre, che è solo cresciuto dopo un mese passato in un paese arabo (e per fortuna uno dei più liberali!), di come qui ci sia voglia di vivere e amore per la vita, nonostante tutto.

Ivan sta andando a trovare suo padre a Tel Aviv, visto che è il suo compleanno. Andata e ritorno in giornata, perché domani lavora. Sono 10 ore, ma le fa con il sorriso sulle labbra.

Si interrompe per condividere la meraviglia di vedere enormi serre in pieno deserto e mi consiglia di provare un vino che fanno in Galilea, dove andrò a stare per i prossimi due o tre giorni.

Oggi è festa in Israele, il Purim. Deve essere una specie di carnevale perché vedo tanti giovani in maschera.

Scrivo queste note che pubblico alle 15.35 grazie al Wi-Fi gratis, sul treno che da Be’er Sheva mi porterà ad Haifa. Penso al vino, di cui mi sono già dimenticato il nome, e al fatto che mentre con gli eventi del mondo esterno sono in una striscia negativa di sfighe, che al confronto i Knicks di quest’anno sono una squadra vincente, se dentro di me trovo la forza di essere positivo e brindare alla vita nonostante tutto, vuol dire che qualcosina la sto imparando, finalmente.


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