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- Scritto da Davide Dubinelli
- Categoria principale: Festival
- Categoria: Festival di Cannes 2015
- Pubblicato: 13 Maggio 2015
«Per i miei film precedenti sono partito da fatti reali, e li ho trasfigurati fino ai confini di una dimensione quasi fantastica. In questo caso, invece, abbiamo compiuto il percorso inverso: abbiamo preso spunto da situazioni fiabesche per poi ricondurle su un piano realistico e concreto». (Matteo Garrone)
Se la grandezza di un artista si misurasse con la sua capacità di evolvere la propria opera percorrendo territori inesplorati pur rimanendo fedele a una precisa identità autoriale, allora avremmo un vincitore. Il coraggio di spingersi oltre aggrappandosi al rischio, di percorrere l'impervia via tra il popolare e l'elitario, di affrontare il crudo realismo del presente attraverso il chiaroscuro fantastico di un remoto passato: un azzardo da premiare, assolutamente. Un cinema che si staglia prepotente nel panorama italiano, prendendo le distanze dal morboso attaccamento a un hic et nunc che confina troppo spesso lo sguardo entro visioni standardizzate.
Fedele a se stesso, nel solco dello spirito grottesco dalle tinte foscamente horror, sospeso tra sogno e realtà, che attraversa tutta la sua opera, Garrone ha ridotto e fatto suo «il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari» (Benedetto Croce, 1924). Quel Lo Cunto de li Cunti del letterato barocco Giambattista Basile (1566-1632) che, tra Commedia dell'arte, racconto rituale e formulario alchemico, si configura come un'opera complessa e stratificata nonché un prototipo di letteratura seriale, concepita per l'intrattenimento di corte. Trasponendo solo tre (La regina, La pulce, Le due vecchie) dei cinquanta racconti che compongono lo scritto originale, il regista romano ha realizzato una rapsodia d'autore che incornicia il mistero della vita, la morte, le pulsioni primitive dell'uomo, la maternità divoratrice, l'illusione d'amore, il disfacimento del corpo, tra immaginifico e mostruoso, umano e ferino, fiabesco e funereo. Una ricerca artistica ellittica e magnetica nelle sue sfuggenti suggestioni che, nel consapevole rifiuto della narrazione classica, unisce allegorie di matrice letteraria, iconografia ancestrale e un profondo senso di rappresentazione cinematografica che va oltre la semplice illustrazione della pagina scritta.
L'arcana e sanguigna materia narrativa, così distante da ogni pretesa di contemporaneità, trova attualizzazione attraverso la poetica di Garrone, in grado di plasmare con consumata esperienza un mondo fantastico e carnale popolato da giullari, orchi, re, draghi, principesse, damigelle, fate e streghe. Lo splendore delle dimore regali convive con l'oscurità in cui si aggirano creature deformi e freaks destinati a vivere nell'ombra, in una favola nera dominata da Caso e Fortuna.
La magia ribollente del fantasy trova un ideale contrappunto sonoro nelle note della partitura musicale di Alexandre Desplat e raggiunge un esemplare splendore figurativo grazie alle luci e ai colori di Peter Suschitzky (abituale collaboratore di David Cronenberg), straordinario nell'esaltare la nebulosa bellezza degli scenari toscani (Palazzo della Signoria di Firenze, il Castello di Sammezzano a Reggello, Sorano, Sovana), pugliesi (Castel del Monte di Andria, Gioia del Colle, Mottola, Statte), abruzzesi (il Castello di Roccascalegna a Chieti) e siciliani (il Castello di Donnafugata a Ragusa, le Gole dell'Alcantara). Ma a impressionare è la ricerca visiva di Garrone, il cui sguardo pittorico abbatte i confini del Barocco e guarda alle tele del '600 napoletano ma anche alle Pinturas negras e alla serie dei Caprichos di Goya, ai paesaggi della scuola di Posillipo e alle vedute del pieno Romanticismo, dove la linea dell'orizzonte si perde in un mondo in cui tutto può accadere.
E il possibile naufragio della speranza nella lotta tra uomo e natura sfuma nel magico finale, in cui le storie trovano il loro punto di contatto in una sospensione onirica fuori dal tempo.
Voto: 3/4