« My name is Adam, my name is Eve
I was the first man to live and breathe »
(Kasey Chambers & Shane Nicholson)
Il mio nome è Adamo, e sono stato il primo uomo sulla terra. La ricordo bene la terra in quei tempi, non sono esperienze che si dimenticano. Lo chiamavamo il Paradiso Terrestre, e non era molto diverso da oggi: campi, colline, ruscelli, valli, fiori, boschi. I campi erano verdi, il cielo azzurro. Come oggi. Era il clima ad essere diverso: sempre perfetto, una temperatura da paradiso. Una pioggia leggera giusto per il tempo di odorare il profumo di terra e di ozono, e poi il sole, un sole gentile ai cui raggi era bello stendersi sui prati.
Eravamo io e lei, io ed Eva, e non ci sentivamo soli. C’erano gli animali. Non esisteva la paura, perché non esisteva la morte. Non c’era il dolore, non c’erano malinconia né noia. Potrei azzardare che non c’erano regole. Di certo non c’era il primo, perché in effetti non si era mai sentito parlare di altri dei, e Lui era lì, in mezzo a noi, e credergli veniva facile. Magari il secondo, ma non lo definirei proprio un comandamento, direi piuttosto un consiglio: non disturbare il Grande Vecchio il settimo giorno, la domenica, perché ci teneva eccome al suo riposo. Ma d’altra parte perché avremmo dovuto rivolgerci a lui invano? Non avevamo domande perché non avevamo problemi. Neanche parlarne del quarto, perché non c’erano genitori né figli; noi due eravamo tutto quanto ci serviva.
Non c’era il quinto, perché non esistevano né la nascita né la morte: niente ciclo della vita. Non c’erano il settimo, né il nono né il decimo, perché tutto quello che era a portata di mano ci apparteneva. Cosa avremmo potuto desiderare o rubare? E a chi?
Ora che ci penso, in qualche modo doveva essere in vigore il sesto, ma all’inizio non ci avevo mai pensato. Certo, Eva era bellissima, ed ogni volta che il mio sguardo si soffermava su di lei non potevo fare a meno di emozionarmi. Non mi ci abituavo mai. Era bianca, morbida, rotonda. Aveva un bel seno, che non aveva bisogno di coprire perché era giovane, non faceva freddo e non c’era nessuno a cui nascondersi. Aveva dei fianchi larghi, aveva dei glutei tondi e delle cosce sinuose. E dove le cosce si incontravano al ventre, aveva una mela, anche se Lui aveva in qualche modo pensato di nascondere con una deliziosa peluria riccia.
Non esisteva il sesso perché non esisteva il tempo, e di conseguenza non c’era futuro né passato, non c’erano né figli né genitori. Non aveva un senso né nascere né morire. Fra me ed Eva non c’erano discussioni né litigi, perché non esistevano ira, invidia, superbia, gola, avarizia, accidia. Però qualche cosa, in effetti, c’era. Non avrei saputo come definirlo: non un appetito, perché nel Paradiso Terrestre non esisteva la fame. Un languore, un senso di vuoto all’addome che mi prendeva a guardarla dormire, a riposare sdraiata al sole.
Oggi lo chiamerei un desiderio. Un desiderio che andava dai miei occhi, alla mia bocca, alle mani, giù fino al mio inguine, a quello che Eva ridendo chiamava il serpente. Un serpente che a volte, quando mi distendevo al suo fianco, sembrava voler prendere vita.
Non c’erano amici con cui parlarne, e di chiederne a lui non se ne parlava; mi frenava una sorta di non identificato pudore. Dopo tutto era Dio. Cosa avrei potuto dirgli: «È magnifico questo Paradiso che ci hai donato, però c’è una cosa che manca»? Mi sarebbe sembrato tremendamente scortese, e anche decisamente ingrato.
Ne parlai con la donna che amavo, e che ad oggi non ho mai smesso di amare, la mia Eva. Quando mi fissò con i suoi grandi occhi scuri, un brivido in fondo alla schiena mi sembrò un indizio di sciagure, ma anche una promessa di piacere. Anche lei dunque mi desiderava.
La toccai, la accarezzai, la baciai, lei mi diede la mela ed io le diedi il serpente.
Lui subito fu lì da noi, e ci parlò. Non era così che funzionava il Paradiso, ci spiegò. Non era di carne che avevamo bisogno nella beatitudine perfetta. Il sesso non trovava un posto nella perfezione; il sesso era compagno del tempo, della riproduzione, del bisogno, della necessità, della fame, del lavoro, della morte. Del parto, del lavoro, della disillusione, della delusione, del tradimento, del dolore.
Nel Paradiso terrestre, che Lui aveva creato proprio per noi, potevamo avere tutto ciò che ci serviva, e non ci serviva nulla perché non ci mancava nulla. Ma se avessimo voluto la mela, allora avremmo incontrato una serie infinita di necessità, che avremmo scoperto impossibili da soddisfare.
Che ve lo dico a fare, non gli demmo retta.
Ed anche oggi che non sono più giovane e forte e sicuro di me stesso, che sono vecchio e solo ed il mio tramonto è iniziato, non mi pento della nostra scelta. Ma tante volte ne parlammo, io ed Eva. Tante volte discutemmo, gridammo, ci accusammo, ci offendemmo, mentre gli anni passavano, l’inverno era freddo, il cibo era scarso, la bellezza svaniva ed i figli crescevano. Alla fine, sono rimasto solo, lei se n’è andata. Per dirla tutta, mi ha lasciato. Il paradiso è sempre qui, ma ora piove, fa freddo, fa caldo, le mosche e le zanzare sono odiose, e mi devo procurare da mangiare facendo un lavoro noioso e ingrato. Devo guardarmi dai ladri e i politici. Non è vero quello che si dice, che Lui si adirò e ci cacciò. Fu Lui ad andarsene, in silenzio, deluso dalla nostra ingratitudine, ma soprattutto perché sapeva di non servirci più. Lasciò lui le valli della terra, mentre noi siamo ancora qui. Non si è più visto, anche se sono in molti a sostenere di parlare per lui.
Ne è valsa la pena? Quando mi ricordo di quel suo seno arrogante, dei suoi fianchi morbidi, del suo sedere rotondo, della sua mela dolcissima, beh, penso proprio di sì.
Blue Bottazzi. Racconti ed altre canzoni (in pubblicazione in qualche giorno futuro)