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Il ragazzo con la bicicletta

Creato il 24 maggio 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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La cosa che sorprende di più in Il ragazzo con la bicicletta, ultima fatica cinematografica diretta da Jean-Pierre e Luc Dardenne, è che lo script dal quale prende vita, per la prima volta nell’intera filmografia dei due registi, appare come il vero anello debole dell’opera. La potenza espressiva, la solidità narrativa, la scorrevolezza degli eventi e l’essenzialità dialogica, da sempre tra i marchi di fabbrica del duo belga, qui viene incredibilmente e inspiegabilmente a mancare. Pur conservando rigore e realismo, la scrittura dei Dardenne, che tante soddisfazioni in termini di riconoscimenti nel circuito festivaliero internazionale ha dato loro (due Palme d’Oro a Cannes nel 1999 e nel 2005 rispettivamente con Rosetta e L’enfant, più un premio per la miglior sceneggiatura nel 2008 grazie a Il matrimonio di Lorna), qui perde quasi interamente, fatta accezione per qualche sussulto qua e là, le caratteristiche portanti che le hanno permesso di calamitare a sé l’attenzione da parte del pubblico e soprattutto degli addetti ai lavori.

Prevedibilità e fragilità drammaturgica si manifestano prepotentemente in una sceneggiatura che mai fino a questo momento nel cinema dei Dardenne era stata così vicina all’essere piatta. Una simile affermazione potrebbe apparire ai tanti estimatori del duo (e tra questi anche il sottoscritto) come una vera e propria “bestemmia”, ma purtroppo bisogna arrendersi all’evidenza. Ovviamente non si parla di originalità, perché le storie delle quali si alimentano i due fratelli per le loro pellicole vengono dalla quotidianità e da plot essenziali. È un cinema il loro che non cerca grandi storie, ma si limita alla dimensione intima dei rapporti umani. Da questo punto di vista, Il ragazzo con la bicicletta non fa eccezione, trascinando lo spettatore nella vita turbolenta di un dodicenne di nome Cyril, con in testa un’idea fissa: ritrovare il padre che lo ha lasciato temporaneamente in un centro di accoglienza per l’infanzia. Incontra per caso Samantha, una parrucchiera che accetta di tenerlo con sé durante i fine settimana. Il ragazzo non è del tutto consapevole dell’affetto della donna, un affetto di cui ha però un disperato bisogno per placare la sua rabbia. In tal senso, non è difficile scovare nella natura del personaggio le tracce emotive e caratteriali del protagonista del truffautuniano I quattrocento colpi (1959), capolavoro assoluto con il quale ci si deve per forza di cose confrontare quando si decide di costruire una sceneggiatura sull’infanzia incompresa.

In questo film ritroviamo, infatti, un tema caro ai Dardenne quanto al celebre collega francese, vale a dire l’infanzia e in particolare il rapporto tra genitori e figli, così intensamente e straordinariamente trattato in La promessa (1996), L’enfant (2005) e Il figlio (2002). Peccato che ne Il ragazzo con la bicicletta, anch’esso presentato manco a dirlo in concorso al Festival di Cannes, il tema non viene elaborato con gli stessi esiti delle opere precedenti. Qui c’è di nuovo un genitore assente, incapace di fare il padre e un figlio che non vuole e non riesce a farsene una ragione. Ancora un racconto di formazione alimentato dal dolore, che nasce da un faticoso viaggio di crescita e formazione. La sceneggiatura ruota unicamente intorno a questo, ma lo fa con personaggi privi dello spessore e della profondità che hanno sempre caratterizzato la “galleria” dardenniana. A mancare pesantemente è l’introspezione. Unica eccezione forse quello di Samantha, interpretato magnificamente da Cécile de France, una donna che non si chiede mai il perché delle cose (compreso i motivi che la portano ad occuparsi di un figlio che non è suo, lo fa e basta) e che mescola dolcezza e forza. Spessore che al contrario non caratterizza positivamente quello di Cyril (l’esordiente e convincente Thomas Doret), personaggio abbastanza schematico, fotocopia sbiadita di altri già apparsi sul grande schermo.

Ne viene fuori un dramma che diversamente dalle altre volte sfugge per un soffio dalla demagogia ma non al sentimentalismo, “virus” che i registi belgi erano riusciti sempre a debellare, dosando abilmente commozione e semplicità in un perfetto equilibrio che non ha permesso mai all’uno di sovrastare l’altro. Della serie anche i grandi possono toppare! Resta comunque da salvare la solita leggerezza nel tocco registico, figlia di uno sguardo che osserva senza giudicare e di una cinepresa a spalla che sta addosso ai protagonisti per coglierne la fisicità del comportamento (non ha però la potenza espressiva ed empatica di quella vista in Il figlio). Da sottolineare anche la presenza ne Il ragazzo con la bicicletta di elementi inediti nel cinema dei Dardenne: dall’uso, seppur parsimonioso, della musica alla scelta di ambientare la vicenda in estate; quest’ultima una scelta che restituisce una luminosità che non c’era mai stata nei loro film. Che siano i primi segnali di un possibile cambio di rotta. Stiamo a vedere.

Francesco Del Grosso


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