Il ragazzo del Forte Prenestino

Da Bibolotty
Barbara mi chiamò che erano le tre del mattino. «La Pergola ha grossi problemi tecnici, cazzo!, cerca di fare qualcosa, cazzo!, Judith Malina ha dieci giorni liberi e non sa dove andare, cazzo!, fai qualcosa e sbrigati!», e riagganciò senza lasciarmi il tempo di emettere un fiato. Mi rimisi a letto mentre lui (un lui, purtroppo, c’è sempre stato nella mia vita) continuava beatamente a russare. Pensai che “Barbie” avesse avuto una visione notturna o, più realisticamente, che fosse ubriaca. Così mi rimisi giù certa che il giorno dopo, verso le due del pomeriggio, all’ora della sveglia degli attori, mi avrebbe richiamata per scusarsi. Invece, alle tre del pomeriggio, squillò potente il telefono di casa di marca Bell. «Cazzo!, allora?» era ancora lei, nervosissima. «No problem» le dissi con una calma esagerata per quella situazione che avrebbe richiesto, invece, una sana preoccupazione. «Entro stasera ti faccio sapere». Riagganciai e mi misi a passeggiare per la terrazza, unico spazio ampio che il miniappartamento sulla Cassia offriva. In un’epoca in cui il web ancora non esisteva, trovare una soluzione a un problema così, richiedeva un vero colpo di genio o un’agenda piena di numeri utili. A: Antonio, figlio di puttana, Alberto, grandissimo vigliacco, Anna, lasciamo stare, Antonella, la devo chiamare, Annalisa, prima o poi le metterò le mani addosso... Zeno... tecnico delle luci. Niente. Dalla “A” alla “Z”, la mia rubrica era un pieno di ex fidanzati e false amiche, ma un deserto di soluzioni. Riuscire a piazzare Malina e il Living Theatre avrebbe rappresentato un goal pazzesco per un’attrice squattrinata, sconosciuta e al momento senza l’ombra di un lavoro. Soprattutto, quel favore immenso a Barbara, poteva preludere a importanti inviti a cena nella sua splendida casa in centro, sempre piena di registi e produttori. Organizzare, cercare e prenotare alberghi, e soprattutto avere accesso alle prove di quella storica compagnia, era il non plus ultra in quel momento di magra, con “lui” che, in sovraprezzo, preso da depressione da inattività, stava sul letto impegnato dalla mattina alla sera a nascondermi giornaletti porno e tutto il suo desiderio di tradirmi.
Ma la soluzione mi cadde sotto gli occhi mentre scorrevo di nuovo l’agenda e la lettera “D”. Davide. Dio mio come lo trattavo male quel ragazzo e il suo vespone. Credo che il Buddha stesso, se mai arriverò a parlargli di persona e nonostante abbia i calli ossei alle ginocchia (per le preghiere non per altro), non potrà mai essere clemente con me per ciò che gli combinai quella volta. Perché sì, all’epoca avevo l’abitudine di servirmi degli uomini che mi amavano, per abbandonarli poi un po’ dove capitava e senza tante spiegazioni. Grazie al cielo nessuno di loro è mai venuto sotto casa a domandarmele, le spiegazioni, ma certamente ho lasciato dietro di me qualche malumore e pessime cause manifeste. Alle sei in punto del pomeriggio, Davide era sotto casa. «Ti porto in questo centro sociale appena occupato, in cambio voglio soltanto che tu diriga una performance sugli orrori della guerra in Bosnia... » e continuando a raccontarmi di chi voleva coinvolgere, di come aveva ideato l’iniziativa, e di quanto fosse innamorato di me, arrivammo sulla Prenestina.
Era primavera, e il Centro non era che una baracca disorganizzata e piena di erbacce. Un grande cancello col lenzuolo bianco con la scritta “Centro occupato” era l’unica forma di vita umana visibile all’orizzonte. I capi, ragazzi e ragazze con chiodo e capelli lunghi, accolsero con entusiasmo la mia proposta mettendomi subito una scopa in mano. Io e Davide spazzammo assieme a loro finché a notte fonda, e passandoci qualcosa da fumare, ci accordammo per la settimana seguente con l’apertura del centro sociale al vecchio, significativo e super politicizzato mondo del Living Theatre. Con tremila lire, centinaia di persone avrebbero avuto accesso allo spettacolo, della durata di circa quattro ore, a un panino con salsiccia e a un bicchiere di vino. Da Marketing manager in erba e novella esperta in comunicazione, girai con Davide tutte le università romane distribuendo volantini. Con Davide non dormii che quattro ore per notte, quelle rosicchiate alla frenetica e complicatissima ricerca di alberghi convenienti e abbastanza capienti per la Compagnia al completo che, salva da un buco lavorativo di dieci giorni, ci aveva concesso l’onore di assistere alle prove. Con Davide iniziai a buttar giù un’idea per la sua performance e mangiai i pranzi che lui stesso preparava.
La sera della prima mi misero a far panini. Accanto al fuoco il vino scorreva a fiumi, di tanto in tanto scostavo l’immenso telone nero messo all’ingresso del capannone spoglio, e guardavo svelarsi sotto i miei occhi, la magia del Teatro. Un uomo vestito da soldato stava immobile al centro della scena completamente spoglia e potentemente illuminata da fari bianchi. Passarono tre minuti, poi cinque, poi otto, poi dieci interminabili minuti di silenzio e inazione. Allora, il silenzio si fece dapprima brusio indistinto, poi mormorio di protesta e infine, flebile ma armonioso, il fischio continuo di uno spettatore si fece due, poi cinque, poi trenta, poi cinquanta, poi duecento fischi intonati, che come un’onda divenne melodia. Allora, a vent’anni, potevo anche essere certa, guardando quella performance, che sarebbe stato semplicissimo cambiare il mondo tutti assieme. Semplice come trovare uno spazio giusto per il Living Theatre e riempirlo in soli cinque giorni. Toccai il culmine della felicità, quando Barbara mi abbracciò con uno sguardo pieno di riconoscenza e appena velato da un dubbio per quella che lei definiva, cocciutamente e per partito preso, la mia ilare stupidità.
Lì davanti al fuoco, Davide mi guardava con sospetto mentre io, con simpatia, guardavo un ragazzo moro dai capelli corti e ricci che da un’ora non faceva che sorridermi, passandomi fette di pane abbrustolito. Lì davanti al fuoco e con un bicchiere di vino rosso tra le mani, dimenticai il mio “lui”, che nemmeno si era degnato di venire a vedere lo spettacolo, per abbandonarmi al ragazzo del Forte Prenestino, prestato per una sera ai compagni della ex SNIA, per far servizio d’ordine. Davide mi vide andare verso una zona oscura mano nella mano col ragazzo appena conosciuto. Lì sulla Prenestina, in quella zona franca che sembrava parte di una città appena bombardata, tra i ruderi della ex fabbrica e i cocci di bottiglia, io e il ragazzo del Forte facemmo l’amore fino all’alba. Ricordo che era alto e magro, che aveva occhi neri e un bel naso importante, dritto e sottile. Nel buio di quella notte senza luna, risplendevano i suoi denti che le labbra carnose scoprivano quando mi sussurravano parole d’amore. Invece era con lui, era col mio fedele amico che avrei dovuto fare l’amore quella notte, era a Davide che dovevo qualcosa per avermi portata in giro per una settimana intera in groppa al suo vespone. Ma la vita è ingiusta, e l’amore, anche quello di una notte sola, colpisce a caso con le sue frecce imbevute nell’egoismo. Se mai Davide passerà da qui, saprà almeno che non l’ho dimenticato, che ancora penso al suo sguardo triste illuminato dal fuoco e dalla fiamma corrosiva del desiderio vano.



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