Qualche anno fa ho avuto un inverno difficile. Ora non mi pare importante ricordare l’origine di quel male. Avevo trent'anni e mi sentivo senza forze, sperduto e sfiduciato come quando un’impresa in cui hai creduto finisce miseramente. Un lavoro, una storia d’amore, un progetto condiviso con altre persone, un libro che ha richiesto anni di fatica. In quel momento immaginare il futuro mi sembrava un’ipotesi remota quanto quella di mettersi in viaggio quando hai la febbre, fuori piove e la macchina è in riserva sparata. Avevo dato molto, e dove stava la mia ricompensa? Passavo il tempo tra librerie, negozi di ferramenta, l’osteria davanti a casa e il letto, a contemplare il cielo bianco di Milano dal lucernario. Soprattutto non scrivevo, che per me è come non dormire o non mangiare: era un vuoto che non avevo mai sperimentato.
Il giovane uomo urbano che ero diventato mi sembrava l’esatto contrario di quel ragazzo selvatico, così nacque in me il desiderio di andare a cercarlo. Non era tanto un bisogno di partire, quanto di tornare; non di scoprire una parte sconosciuta di me quanto di ritrovarne una antica e profonda, che sentivo di avere perduto.
Con la fine del Novecento arrivò anche quella del vecchio albergo: venduto, demolito e ricostruito per farne un condominio. Così di quel luogo, come scriveva Mario Rigoni Stern, “sono rimaste ora solamente queste mie parole”.
Avevo bisogno di ripetermi una cosa molto semplice: che il paesaggio intorno a me, dall'aspetto così autentico e selvaggio, fatto di alberi, prati, torrenti e sassi, era in realtà il prodotto di molti secoli di lavoro umano, era un paesaggio artificiale tanto quanto quello di città. Senza l’uomo, niente lassù avrebbe avuto la forma che aveva. Nemmeno il ruscello né certi alberi maestosi. Perfino il pascolo in cui mi sdraiavo al sole sarebbe stato un bosco fitto, reso impenetrabile da tronchi e rami caduti, dai massi coperti di muschio e un sottobosco folto di ginepro, mirtillo e radici intricate.
A volte mi chiedevo: ci sarà stata davvero un’epoca in cui Fontane era un villaggio abitato? Facevo fatica a immaginarla, in montagna vedevo solo ruderi da quando ero bambino. Avevo l’impressione che il presente, lassù, da molto tempo fosse un mucchio di cocci che non era più possibile rimettere insieme. Potevi solo girarteli tra le mani e indovinare a cos'erano serviti, come mi capitava smuovendo una pietra e trovandoci sotto un manico di legno, un grosso chiodo ritorto, un groviglio di fil di ferro.
Il 29 giugno, San Pietro, patrono degli alpeggi, dopo cena salimmo insieme fino alla stalla.
Ho anche provato a scrivere un racconto su di lui. Ma come succedeva in quella storia, c’era un problema insormontabile nel nostro rapporto: io non ero suo figlio, lui non era mio padre. Quando alla fine di una scalata ce ne andavamo ognuno per conto suo, io per qualche giorno provavo a parlare come lui (poco), camminare come lui (con leggerezza, quasi senza peso), avere il suo stesso atteggiamento di fronte al pericolo, tipo un temporale in parete (fischiettare). Lui invece, appena io non c’ero più, ripartiva con qualcun altro. Non che non mi volesse bene, ma quello era il suo mestiere: lui aveva bisogno di clienti, io di un maestro. Soffrivo di questo squilibrio come di un amore non corrisposto.
Mai tornare dove sei stato felice, dicono i saggi, però dà un certo conforto sapere che i tuoi ricordi sono lontani solo un paio d’ore a piedi.
Mi sentivo sfiduciato e sciocco, trascinato fin lì da un gioco insulso: perdermi per vedere se ero in grado di ritrovare la strada, scappare lontano da tutti per cullarmi nella nostalgia. Ero andato in montagna con l’idea che a un certo punto, resistendo abbastanza a lungo, mi sarei trasformato in qualcun altro, e la trasformazione sarebbe stata irreversibile: invece il mio vecchio nemico spuntava fuori ogni volta più forte di prima.
Mi turba la sua indifferenza alle stagioni, perché una pianta sempreverde è come un volto che non cambia espressione.
A quattordici anni aveva cominciato a fare il muratore con suo padre. Preferiva il lavoro alla scuola, ma aveva un carattere riflessivo e a un certo punto si era accorto di un grave limite: le parole che conosceva non gli bastavano per dire come stava. Mi fermai. Camminavamo nel bosco di settembre senza incontrare nessuno. In che senso?, gli chiesi incuriosito. Nel senso, mi spiegò Remigio, che aveva sempre parlato in dialetto, e il dialetto ha un lessico ricco e preciso per indicare i luoghi, gli attrezzi, i lavori, le parti della casa, le piante, gli animali, ma diventa improvvisamente povero e vago se si tratta di sentimenti. Lo sai come si dice quando sei triste?, mi chiese. Si dice: mi sembra lungo. Cioè il tempo. È il tempo che quando sei triste non passa mai. Ma l’espressione va bene anche per quando soffri di nostalgia, quando ti senti solo, quando non riesci a dormire, quando non ti piace più la vita che fai. Remigio a un certo punto decise che quelle tre parole non gli bastavano, gliene servivano di nuove per dire come stava, e si mise a cercarle nei libri. Per questo era diventato un lettore così vorace. Cercava le parole che gli parlassero di sé.
Potevamo farci il bagno in un lago, nutrirci di lamponi e mirtilli, dormire in un prato, ma i selvatici fuggivano al nostro passaggio e ci ricordavano che non eravamo come loro, non lo saremmo mai stati.
La facevo anche da bambino questa cosa, un ultimo giro per salutare la montagna. Scrivevo dei biglietti e li nascondevo nelle rocce spaccate, nelle fessure delle cortecce. Così le mie parole sarebbero restate lì anche dopo di me: proprio come questo libro.
Era tempo di tornare giù. Conoscevo già tutti i sogni che avrei fatto d’inverno.