Il rating delle capre

Creato il 09 febbraio 2012 da Parolesemplici

In questi giorni passati in Senegal, mi chiedevo come le agenzie di rating giudicherebbero la banca delle capre: tripla A, A+, oppure perenne rischio di default? Credo opterebbero per l’ultima opzione, abituati come sono sono a pensare che la crescita sia indipendente dagli uomini. In questo caso, donne, perché loro sono le correntiste della banca. Loro devono trovare i 4000 CFA, i circa sei euro che saranno il loro investimento sulla capra. E possono essere tanti o pochi per chi ha poco o nulla. Loro, i bambini, porteranno le capre al pascolo, ricaveranno il poco latte, i bambini lo berranno. Servono tre o quattro capre per un litro di latte, c’è poco da mangiare anche per le capre. Il meccanismo che riconsegna alla banca alternativamente ad ogni nascita, le capre prelevate (una capra comporta riconsegnare una capra riconsegnata ogni due parti), allarga il credito ad altre donne, che stanno creando una microeconomia basata sull’orto e le capre. Oltre al baratto, in questi luoghi c’è il piccolo commercio che assicura l’accesso alle piccole cose che servono in famiglie con molti bambini. Una penna, un quaderno, i bambini sono affascinati e cercano le biro, ma soprattutto prosegue una crescita verso la scolarizzazione. Un’altra ong si occupa di sostenere e diffondere la necessità di studiare, di esserci nel mondo e a scuola si mescolano bambini e bambine. Siamo in un paese musulmano, non è così scontato, ma qui non ci sono veli, le donne vestono magnificamente senza obblighi, e sono orgogliose della loro bellezza. Le capre non crescono mai troppo, vengono vendute per carne oppure consumate nei periodi di carestia. Questo risponde anche ad un equilibrio dell’ecosistema che non tollererebbe troppi animali onnivori, che mangiano germogli, foglie, tutto quel che trovano, cartone compreso, quindi come nelle nostre campagne gli animali, sono amati, nutriti e poi consumati. Attualmente il flottante della banca dovrebbe, scrivo dovrebbe perché in quelle parti, mai nulla è davvero certo, dovrebbe essere superiore alle 4000 capre, suddivise su 12 villaggi, che dovrebbero aver generato almeno il doppio di animali viventi, quindi in totale circa 12.000 capre. Il che significa un 2500-3000, donne coinvolte. Non oso calcolare il numero di bambini, visto che sono 4-5 per famiglia. In questo viaggio i nostri aiuti specifici, per le sole capre permetteranno di acquistare subito una sessantina di capre a 20-22 euro l’una, poi con i due progetti che stanno andando avanti, altre ne verranno. L’obbiettivo è di incrementare di 150 capre all’anno il flottante. Il progetto delle capre è il più appariscente, ma altri sono ben più pesanti. Le sementi ad esempio, con questa occasione di visita sono stati forniti i mezzi per acquistare subito 60 quintali di sementi, con la promessa di ricavare ulteriore finanziamento da alcune iniziative che già a febbraio verranno fatte in Italia, m’illumino di meno, ad esempio, per acquistarne almeno altrettante prima della semina di marzo. Poi ci sono progetti sui pozzi, i mulini, ecc. ecc. Sono piccole cose, ma per 23 villaggi stanno giocando un ruolo di affiancamento nella crescita e nell’autosufficienza che deve vedere protagonisti gli abitanti.

Ci sono state diverse riunioni nei villaggi, tutte piene di festa per noi, da parte di persone che a volte neppure sanno bene dov’è l’Italia, in tutte si è parlato dei progetti di cooperazione e in ognuna ci è stato offerto il cibo. Offrire cibo, indipendentemente dalla capacità economica di chi lo offre, fa parte del principio immutabile della sacralità dell’ospite. I villaggi in cui eravamo, sono nel sud della provincia di Kolda, una parte povera del Senegal, confinante con la Guinea Bissau, paese ancora più povero, e sono luoghi in cui la carenza di cibo si manifesta con periodicità quasi annuale. Dipende dal tempo, dalla stagione delle piogge, dall’impossibilità di conservare derrate alimentare senza l’attacco di topi e uccelli e gli altri animali che considerano il territorio altrettanto loro quanto gli uomini. Nella savana il terreno coltivabile viene gestito nell’equilibrio che non può superare un certo limite per fornire legna per il fuoco, assicurare rifugio ed alimento ai predatori, frenare la desertificazione in continuo avanzamento. Non tutto si può coltivare e infatti l’ong 7A con cui collaboriamo, si oppone alla piantagione intensiva di Jatropha per fare bio diesel da esportare, ed invece propone di usare la stessa pianta per radicare il terreno e fare olio da usare sul posto per sapone, autoconsumo come combustibile per preservare legna o altro. Il problema è molto presente, perché il governo tende a dare concessioni trentennali ad aziende, alcune italiane, che pensano di mettere a coltivazione di Jatropha, migliaia di ettari, ripetendo quello che già i francesi hanno fatto, ovvero produrre arachidi destinate all’esportazione, mentre la gente muore di fame.

Capire questo equilibrio di un eco sistema precarissimo, dove non esiste autosufficienza alimentare per gli abitanti di un paese con la stessa dimensione dell’Italia, che è senza montagne ed ha 13 milioni di abitanti, con acqua e terreni fertili, ma anche tantissima savana e deserto che sta crescendo, significa entrare in una delle tante contraddizioni che in Africa sono normalità, perché l’intera Africa, è in realtà il magazzino del primo mondo e come tale non produce per sé, non si arricchisce e finisce nell’indigenza. Superare l’idea dell’intervento sulla fame ed andare verso l’autosufficienza, significa pensare che si possa agire localmente. Con pazienza, cercando di mutare lentamente costumi e rassegnazione verso la coscienza del valore del proprio territorio. Bisogna anche dire che i terreni non sono spesso di proprietà, ma appartengono allo stato e quindi le comunità che li usano  possono essere in qualsiasi momento private di questa possibilità. In Africa ci sono altri parametri, tenderei a dire che è tutto precario, ma è precario per me occidentale, non per chi ci abita e conosce le regole e le tradizioni del vivere. La banca delle capre e quella dei semi sono rispettose delle regole locali, in pratica si inseriscono in un sistema che migliora le sue prestazioni e cambia senza strappi. Come tutte le banche può fallire, quella delle galline è fallita, ad esempio, anche se riproveremo a metterla in piedi, ma la banca delle capre, ha una azione fondamentale sulla coscienza delle persone che la usano: le rendono protagoniste, responsabili. E’ un passaggio che si inserisce in un mondo che sta mutando con velocità contraddittorie, quasi incomprensibili, nel senso che convive il telefonino con l’infibulazione e il problema non è ritardare l’uso del telefonino, ma eliminare dalle tradizioni, l’infibulazione. Questo passa attraverso la coscienza delle donne del proprio valore. Una cosa piccola come le capre aiuta l’indipendenza economica delle donne, ed è un progetto che cresce, tanto che in una delle riunioni era presente la rappresentante di associazioni di donne di 21 villaggi di confine, oltre 1200 donne, venuta per capire e partecipare alla banca delle capre. E’ bello, fondamentale che questo lavoro si diffonda, che non finisca. Noi possiamo fare poco e molto assieme. Poco perché i nostri contributi sono limitati, anche se crescenti. Molto perché queste persone sanno che ci siamo, che condividiamo con loro lo sforzo di vivere cambiando, che da qualche parte in Italia, progetti comuni crescono.  Sapere che qualcuno mangerà grazie a se stesso, che crescerà bambini con una mortalità infantile minore, che seguirà quel cartello che è presente in ogni villaggio e che vedete nella foto, dà la soddisfazione di fare qualcosa che serve, quindi siamo noi che ringraziamo loro. Questo in qualche modo glielo stiamo dicendo.

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