5 Febbraio 2016
Inspiro. L’aria è gelida e secca, nelle narici. Il tronco robusto e spesso. Sono sopravvento. Non può vedermi, né sentirmi. Non esisto.
Il sole è basso. Arancione e porpora. Tagliato da due strisce di nuvole. Fa la neve rosa.
Stringo il fucile tra le mani. L’indice destro sul grilletto. Guanti senza dita. La fronte appoggiata alla canna.
Ho notato le sue impronte nella neve poco prima dell’alba, con la dinamo. Freschissime. Dalla forma simile a chele di aragosta. Nette. Vuol dire che è tranquillo.
Un maschio adulto.
Ho tagliato per il bosco, distanziandomi dalla sua ipotetica scia di almeno trecento metri, e proseguendo in parallelo, nascosto tra gli alberi e i cespugli, per anticiparlo e trovarmi più in alto di lui.
L’uomo che m’ha insegnato a sparare, quand’ero ragazzo, me lo ricordava sempre: il cervo si aspetta di essere attaccato dal basso, perché è il Re della Montagna.
È forte, maestoso, inquieto. E veloce. Può superare gli 80 Km/h. Non ha rivali in natura. Non qui, dove non ci sono più lupi.
Lo sento. I suoi zoccoli raspano nella neve fino al terriccio, in cerca di radici.
Mi affaccio appena, più lento che posso.
È laggiù. Mi dà il fianco.
Poco più di due metri, alto circa uno, al garrese. Conto tre palchi di corna, per circa 70 centimetri di lunghezza.
Palla da 20. Canna superiore. Miro.
Il cervo sbatte le orecchie e alza la testa, veste il manto invernale grigio-bruno. Si volta. Mi vede. Un soffio di vento accarezza la folta peluria che ha sul collo.
Sobbalza. Muscoli e tendini si caricano per prendere lo slancio.
Anticipo l’angolo di traiettoria, verso sinistra. Sparo.
Colpisco sulla spalla. L’altezza del cuore e dei polmoni.
L’animale compie un balzo in avanti che lo proietta tre metri più in là. Poi caracolla, trascinandosi per un’altra ventina di metri sempre più lento, mentre il fianco sgocciola di un rosso cremisi, in scia sulla neve.
Si appoggia prima sulle zampe anteriori, piegandole. Infine si accascia.
Vedo il suo ventre alzarsi e abbassarsi veloce. Gli sbuffi di vapore del suo affanno.
Mai avvicinarsi a un cervo ferito. Neppure per mostrargli pietà.
Non ne vuole. Non da chi lo ha ucciso. Meglio aspettare e lasciarlo morire. Da solo.
***
Il prossimo Dicembre compirò quarant’anni. Non sono mai stato così in forma.
Ventre piatto. Gambe salde e robuste. Braccia allenate da tutta la legna che ho spaccato. Fiato lungo, per le corse nei boschi, sulla neve. Capelli brizzolati e barba bianca sul mento. Aspetto selvatico.
La mira è buona.
Alla fine ho compreso l’essenza della caccia: sopravvivere.
Quel che è rimasto da fare.
Mi accovaccio vicino al cervo. Poso la mano sulla ferita ancora calda.
Non sono arrivato a strappare il cuore della preda, e a mangiarlo: lo spirito del cacciatore.
Non so se ci arriverò mai a possederlo, quel dono.
Mi limito a pregare. Con gli occhi chiusi. Tempo di nuove tradizioni.
Quando li riapro, noto il tessuto di una camicia a quadri, rosso e nero, immobile dietro a un tronco di pino.
Mi alzo. Fucile spianato.
L’ultimo abitante del villaggio è lì seduto, la schiena contro l’albero. Un blocco di ghiaccio giallo livido.
Cristalli bianchi che gli hanno tagliato le labbra, e gli occhi sono punteggiati di piccole schegge rossastre. I capillari esplosi.
Deve essersi nutrito, a giudicare dal sangue intorno alla bocca e sulla camicia, poco prima di venire qui a crepare, anche lui da solo.
***
Incido le cortecce con il coltello man mano che ritorno. Devo ritrovare il corpo e sbarazzarmene.
Ho avvolto il cervo in un’incerata. Me lo trascino dietro con l’ausilio di corde robuste. Pesa circa novanta chili. Ancora troppi per il mio torace.
Tanti anche per una persona sola.
Non sarò di ritorno prima di pomeriggio. Merda.
Santini avrebbe voluto unirsi a me. Me l’ha domandato ieri sera, in una conversazione univoca. Da parte sua.
Ho rifiutato.
Deve imparare a muoversi senza far rumore. Devono imparare tutti.
E l’inverno non è stagione per insegnare, e sprecare selvaggina e munizioni. Con la primavera sarà diverso.
Cristina, appena arrivata, mi ha chiesto se avessi qualche regola, un limite, un’accortezza che tutti loro, dato che questo è il mio posto, così l’ha definito, avrebbero dovuto osservare.
“Non rompermi i coglioni”. È questa, l’unica regola.
Cristina sembra continui a pensare alle favole della buonanotte, quelle con le quali, nel mondo prima di questo, nutrivamo i nostri cervelli.
Menzogne, per lo più.
Mi sa che c’è rimasta male. Anche gli altri. Valenziano persino più della reporter. Harmke mi ha scrutato. Sta prendendomi le misure. Io ho fatto altrettanto. Ho mirato a lui, sul luogo dell’incontro, mentre decidevo se uscire allo scoperto.
Alex no. Sa come sono fatto.
Eppure, un conto è saperlo, un altro viverlo. Anche lui ha la sua bella dose di confusione da smaltire. Non è più solo un avatar.
Non so ancora se mi piace l’idea di avere tutta questa compagnia.
***
Li ho fatti sistemare in case distanti dalla nostra. Non li voglio tra i piedi, o troppo vicini.
Spero che non abbiano condotto nessuno fino a noi, durante il tragitto. Abbiamo bloccato le strade d’ingresso al paese con le automobili restanti. La mia, con la sorpresa sul sedile, è sempre piazzata di fronte a casa.
Ad Alex ho mostrato la dimora del prete, senza dirgli nulla, dopo averla ripulita. Lo scoprirà leggendo questo post.
Spero apprezzi il regalo… da un vecchio amico.
Cerco di frequentarli il meno possibile. Zooey, al contrario, una di queste sere vuole invitarli a cena, da noi.
È arrivata a farmi gli occhi dolci, per convincermi.
Sono qui da soli tre giorni. Il suono delle loro voci mi sembra quello di una folla intera.
È una sensazione che detesto.
Loro provengono da laggiù, come me. So benissimo ciò che pensano e anche come lo pensano.
Dicono, e soprattutto scrivono, che la Gialla e i lutti che ognuno di noi ha condiviso e procurato, abbiano cambiato la prospettiva. Sono tutte stronzate.
È solo rimorso, ciò che si ostinano a voler provare. Per sembrare nobili. Ma agli occhi di chi?
***
Harmke ha detto che mi aiuterà a installare il pannello solare sul tetto di casa nostra, mia e di Zooey, per sdebitarsi.
Nel frattempo, lei continua a inventarsi ogni metodo possibile per consumare quel poco di benzina che ancora abbiamo per il generatore. Eccitata dalla compagnia inattesa e confidando nell’energia pulita.
La lascio fare. Mi piace vederla così.
Stamattina mi ha svegliato con Wuthering Heights, da YouTube, attraverso il tablet, amplificato da casse sottili e potenti, a volume massimo. Le ha trovate curiosando nell’appartamento accanto al nostro. Le sto provando per la serata, dice.
Durante i venti secondi necessari a svegliarmi e tornare lucido, sono stato in un incubo fantasy, nel quale un satiro cornuto, piedi a zoccolo e pelliccia, sventrava un’elfa vestita di rosso con un coltellaccio ricurvo e grigiastro, su un prato in riva a un laghetto lucente. Poi ho capito che che il satiro ero io. E che tra le mani non avevo un coltello…
Colazione a letto. Sedia sotto la maniglia della porta. Ha tentato di portare la sua voce alle vertiginose altezze di Kate Bush.
Non è roba per lei. Abbiamo riso.
Mogliettina modello. Sexy e sorridente col pancione, e un bicchiere con la frutta sciroppata tra le mani. Me lo porge, al contempo afferrandone un pezzo, addentandolo e sporcandosi mento e maglietta col succo.
Una volta ripristinata la doccia, in qualche modo, sarà di nuovo profumata. E anch’io. Almeno finché dura il sapone.
Sembra di sentire il traffico, in strada. I rumori della città. E che si debba andare a lavoro prendendo la metro. Di vedere i riflessi dei neon colorati sui vetri e i tipi che affiggono i manifesti pubblicitari di un suo nuovo film. Sembra…
E invece fuori c’è niente.
***
Prima di uscire do un’occhiata a Maeve. Sta meglio, dopo gli antibiotici ad ampio spettro portati da Santini, che sono subito finiti. Ha iniziato a borbottare frasi minacciose in gaelico. Secondo me sono bestemmie. Per Zooey, preghiere. Nell’incertezza, ho fatto sparire i coltelli e tengo i fucili sotto chiave. Saluto entrambe.
Il cane bianco è lì che aspetta, come tutti i giorni da quando è arrivato. È una femmina.
Mi segue sempre. Quando vado a caccia devo legarla o chiuderla in casa.
Non ho idea di come insegnarle ad aspettare in silenzio, a riportarmi le lepri. Ma tenterò. Non le ho ancora dato un nome.
Nella sagrestia della piccola chiesa ho trovato dei blocchi di pietra grezzi e qualche lastra sostitutiva per la pavimentazione, dello stesso materiale. Resti di lavori di consolidamento mai iniziati. Trasporto tutto su da Carla. Sistemerò le cose entro una settimana. Inciderò sulla lapide il perth. La porta al collo anche Maeve, su un pendente. Trovo le si addica. È la runa dei sentieri imperscrutabili.
Di ritorno. Seduto su uno sgabello, i piedi su un altro, gambe sollevate. Al centro della navata, fronte all’altare.
Ascolto un po’ di musica col tablet, la faccio vibrare in ogni anfratto. Mi metto a rileggere un libro, Dubliners. Nevica anche qui.
In questo luogo spoglio porto parole, musica e fede. Una specie di liturgia nuova, senza fedeli e senza officianti.
Le reliquie sono in collina, come si conviene agli esseri toccati dalla grazia. E ai loro resti mortali.
Sotto quelle pietre, segnate dalla runa, custodirò il segreto della fine del mondo. Per mano di una strega. Può sempre tornare utile.
La cagna si accuccia accanto a me, scodinzolando di tanto in tanto, quando incrocio i miei occhi coi suoi, che indagano.
Passa a trovarmi Alex, accompagnato da Zooey e da Franny. L’ha condotto lei, fin qui. Col fucile in spalla. Brava.
Hell… in a Church, ha commentato lui, vedendomi, con un sorriso.
Lo trovo appropriato. Specie se si considera che quel soprannome è stato lui ad affibbiarmelo, anni fa, in una mail.
E non avevamo neanche litigato.
Mi sembra il più nostalgico, tra tutti, del vecchio mondo.
I cani si mettono a giocherellare. Fanno versi strani.
Io e Zooey torniamo a casa. La serata è prevista per domani. Cervo arrosto.
Fatto cenare Maeve. Per noi due, lepre.
Ci mettiamo comodi a guardare un suo film in streaming, 500 Days of Summer. Osserva che era brava.
Pensa spesso al parto. Solo che, a differenza mia, lo esterna.
È convinta che sia una bambina.
Ora la sento anche io sotto le dita. Scalcia.
Fa paura.
***
Queste ultime parole, infine, sono per voi che leggete e resistete. Ha tutta l’aria di essere un addio:
Siete come cervi.
Sbrigatevi a crepare.
Bonus Track:
There is a light that never goes out
fine
Altre pagine QUI
Questo finale si intreccia con il Survival Blog di Alex McNab e con quello di Cristina Riccione
[credits: Eugenio Recuenco per la foto della bella addormentata]