Il re leone - l'eco del ruggito è ancora forte 20 anni dopo
Creato il 30 dicembre 2014 da Ifilms
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Scritto da Lorenzo Bianchi
Categoria principale: Rubriche
Categoria: Cinesaggistica
Pubblicato: 30 Dicembre 2014
Inizio degli anni ‘90: la Walt Disney Pictures è in stato di grazia, dopo aver dato vita a tre film d’animazione enormi come La Sirenetta (1989), La Bella e la Bestia (1991) e Aladdin (1992). Quello che all’epoca nessuno sapeva è che la casa di produzione del compianto zio Walt stava per regalare al mondo del cinema il suo Capolavoro, che ad ora rimane ineguagliato: Il Re Leone.
La trama è celeberrima, e narra delle vicende del piccolo Simba, futuro re della savana che, dopo la morte del padre per mano del perfido zio Scar, è costretto a fuggire convinto di essere il colpevole dell’accaduto. Anni dopo, l’arduo compito di riconquistare il regno mandato in rovina dal crudele e despota zio.
Primo Classico Disney proveniente da un’idea originale – di Jeffrey Katzenberg, fra gli altri, uno dei fondatori della DreamWorks – fu immediatamente un successo clamoroso, che portò ad un incasso totale di 951 milioni di dollari, catapultandolo al primo posto tra i film d’animazione tradizionali della storia. L’Oscar al miglior film d’animazione fu introdotto solo nel 2002, dunque la pellicola dovette accontentarsi del Golden Globe come miglior film commedia e musicale, oltre al trionfo agli Oscar e Golden Globe per miglior colonna sonora, firmata Hans Zimmer, per la miglior canzone (Can you feel the love tonight, di Elton John) e addirittura altre due nomination per miglior canzone, con Circle of life e Hakuna Matata. Alle splendide scenografie film, inoltre, ha lavorato Chris Sanders, che negli ultimi anni ha avuto modo di ottenere grandi risultati da regista, prima con How to Train your Dragon (2010) e poi con I Croods (2013), strepitosi lavori dell’ultimo periodo DreamWorks.
“Essere re vuol dire molto di più che fare tutto ciò che vuoi. Tutto ciò che vedi coesiste grazie ad un delicato equilibrio. Come re, devi capire questo equilibrio e rispettare tutte le creature: dalla piccola formica alla saltellante antilope. Quando moriamo, i nostri corpi diventano erba, e le antilopi mangiano l’erba, e così siamo tutti collegati nel grande Cerchio della Vita”.
Il Re Leone è a tutti gli effetti il lungometraggio più adulto dell’intera filmografia Disney. Epico, toccante, emozionante, il film agisce su diversi livelli, capace di divertire ed intrattenere un bambino, riesce ad aggiungere per l’adulto una dose di profondità e di riflessioni non comuni per un film d’animazione. Complesso nella sua sceneggiatura ottimamente studiata, fluida e avvincente, Il Re Leone riesce a toccare moltissimi temi, dal più superficiale al più intimo, arrivando diretto al cuore di ogni spettatore. Colpisce come ogni personaggio sia studiato accuratamente, caratterizzato nei dettagli, senza lasciare nulla al caso, come per esempio l’inquietante sequenza dell’annuncio di Scar del suo malefico piano, con le iene che marciano sotto i suoi occhi come i soldati nazisti facevano con Adolf Hitler. Le tre Iene, personaggi secondari malvagi, restano comunque ben realizzati e con un elevato tasso comico, speculare controparte negativa di Timon e Pumbaa.
Il Re Leone è inoltre un vero e proprio trionfo di colori e di immagini, dove la resa della savana è precisa, impeccabile, e dove, in mezzo a prati, rupi e cimiteri di elefanti, si consuma una storia i vendetta, di invidia, di coraggio e d’amore di straordinaria complessità. Un’opera imponente, che si avvale anche di una colonna sonora all’altezza, firmata Hans Zimmer ed Elton John, con testi di Tim Rice, che danno vita a canzoni memorabili, molte delle quali destinate all’eternità, dalla The Circle of Life dell’incipit, passando per I Just Can’t Wait to Be King, arrivando a Can You Feel the Love Tonight? e all’irriverente Hakuna Matata.
I Just Can’t wait to be King
Naturalmente è Simba – nome che in shwahili, lingua franca dell’Africa Orientale, significa proprio “Leone” – l’indiscusso protagonista della pellicola, sia per quanto riguarda la trama, sia per fatti esterni, controversie con il Giappone. Nello specifico: alcuni elementi del film non possono non rimandare alla celeberrima serie tv nipponica Kimba, il leone bianco, a partire dall’indiscutibile assonanza con il nome, benché il significato di quest’ultimo, in shwaili, significhi “cadavere”, dunque non di ottimo auspicio.
Inoltre è significativo che Matthew Broderick, doppiatore di Simba, all’epoca pensasse di lavorare ad un remake della serie giapponese, ma tutto rimase nel silenzio delle coincidenze. La verità non la si saprà mai, dunque è giusto concentrarsi sulla complessità di uno dei personaggi più sfaccettati e articolati che la Disney abbia mai creato. Sfacciato e ribelle cucciolo di leone, coraggioso principe che non vede l’ora di essere Re per «correre in libertà e fare sempre ciò che mi va», in una delle sequenze più divertenti e colorate dell’intera pellicola. Una riflessione sulla libertà e sulla responsabilità con cui il piccolo sarà costretto a scontrarsi duramente poche sequenze dopo, quando l’amato padre Mufasa verrà ucciso da suo fratello Scar, invidioso e assetato di potere.
La sua fuga lo porterà a incontrare Timon e Pumbaa, entrando in quella che si può definire la seconda fase della crescita interiore di Simba, quella della “non crescita”. Hakuna Matata. Che in shwahili significa proprio “senza pensieri”, senza responsabilità, trascorrere le proprie giornate senza un progetto, come la strana coppia Timon e Pumbaa vive da sempre. Questa è la fase divertente, sapientemente inserita appena dopo la tragedia, per trovare subito una via di distrazione ai più piccoli, oltre che molto utile per lo sviluppo psicologico del personaggio. Anche se è necessario precisare che non significa sia priva di messaggio, perché l’elogio dell’amicizia che va oltre le diversità esistenti tra un leone, un facocero e un suricata resta un altro elemento valido della pellicola. Diventare re ora non ha più alcun interesse per Simba, felice di aver fatto tabula rasa del suo passato doloroso, del suo enorme senso di colpa che non ha alcuna intenzione di affrontare, fino a che l’incontro che Rafiki – “amico”, in shwaili – non cambierà del tutto la sua visione della vita. Ma prima è necessario parlare di Nala.
Can you feel the love tonight?
La sfida è aperta: chi può non emozionarsi ascoltando la canzone di Elton John? E tra le tante tematiche toccate dalla pellicola, non può naturalmente mancare l’amore, l’evoluzione di un sentimento nato dall’affetto e dalla forte amicizia innocente dell’infanzia, mutato poi nel corso del tempo. Simba. E Nala, che in shwahili significa “Dono”, a dimostrazione che nulla è lasciato al caso, neanche i più piccoli dettagli. Lei è a tutti gli effetti una sorta di principessa Disney forte, dal carattere deciso, che non aspetta che il destino si compia ma si muove per realizzarlo, fuggendo alla dittatura di Scar per cercare cibo, cercare una nuova salvezza, e trovando Simba, creduto morto. Nala, per Simba, è una coscienza, l’amore che lo eleva a “qualcosa di più di ciò che è diventato”, lei è la portatrice di salvezza e di luce nella sua confusione. Lei, che nel finale guiderà le leonesse contro le iene. Nala, a tutti gli effetti risulta uno dei personaggi femminili più belli del cinema d’animazione, e non solo per quanto riguarda la Disney.
“Simba, mi hai dimenticato”
“No, come avrei potuto?”
“Hai dimenticato chi sei, e così hai dimenticato anche me. Guarda dentro te stesso, Simba. Tu sei molto più di quello che sei diventato. E devi prendere il tuo posto nel Cerchio della Vita”
“Come posso tornare? Non sono più quello che ero”
“Ricordati chi sei. Tu sei mio figlio, e l’unico vero Re. Ricordati chi sei”.
Rafiki porta Simba a conoscenza del fatto che suo padre è ancora vivo, vive in lui, ma che con il suo comportamento sta infangando e cancellando la sua memoria. Questa è senza dubbio una delle sequenze più intense e toccanti dell’intera pellicola, in cui vediamo Simba specchiarsi nell’acqua, vedere se stesso, e dopo ulteriore invito da parte del babbuino che lo ha battezzato, guardare nuovamente, vedendo il volto di Mufasa, che poi appare in una nuvola nel cielo, ammonendo il giovane, ridestando la sua coscienza. Visivamente emozionante, commovente, è solo il picco di una macrosequenza più ampia, il cui i protagonisti sono Simba e Rafiki, che prima lo mette di fronte alla realtà della sua confusione interiore – “ma chi sei?” “la domanda è chi... sei tu?” – e poi con un’efficace azione lo porta a realizzare quale sia la cosa giusta da fare, ossia tornare alla rupe dei Re. Lo colpisce in testa con il suo bastone: “Ahi! Che male, perché mi hai colpito?” “Non ha importanza: ormai è passato! Haha” “Si, ma continua a fare male” “Oh si, il passato può fare male... ma a mio modo di vedere dal passato puoi scappare, oppure imparare qualcosa”. Il colpo infertogli alla testa è di gran lunga minore rispetto a quanto accade nel cuore di Simba, con la sua coscienza risvegliata dal babbuino, sua guida spirituale sin dalla nascita e figura strepitosa, tra le più belle mai create dalla Disney. Per Simba è tempo di prendersi le sue responsabilità, di tornare a casa, spodestare lo zio usurpatore e riportare il regno alla sua grandezza passata. In tal senso, resta ancor più significativa la scalata della rupe, epica, sotto una pioggia battente, ogni passo di Simba è carico della fatica della sua responsabilità, è carico dell’amore verso suo padre Mufasa e sua madre Sarabi, dell’amore verso Nala, dell’amore verso il suo regno, un peso interiore conservato per lunghissimi anni, sfogato in un ruggito violento, che non può non aver scosso chiunque vi abbia assistito.
Era il 1994, sono passati 20 anni e la Disney nelle sale propone Big Hero 6. Chiamatelo Classico, se ne avete il coraggio.
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