In settimana, il Parlamento ha approvato il maxiemendamento, proposto dal Governo, sulla Legge di Stabilità, ovvero la legge che disciplina le spese e le entrate dello Stato. Tra le pieghe del provvedimento, a sorpresa, si trova anche una norma per l'introduzione, in via sperimentale, del reddito minimo.
La norma, denominata SIA (sostegno per l'inclusione attiva), riguarderà, per il momento, solo le fasce di lavoratori concentrate nelle metropoli, che sono inseriti in un nucleo familiare e hanno un reddito annuo al di sotto della soglia di povertà, mentre i fondi arriveranno grazie al prelievo sulle pensioni d'oro (quelle superiori a 90 mila euro), che permetterà di racimolare circa 120 milioni di € per il progetto.
Naturalmente, trattandosi di un esperimento non si poteva sperare di più, ma la delusione è tanta: cifra insufficiente, per una fascia di popolazione molto ristretta. Il coraggio è mancato ancora una volta, mentre la situazione dei lavoratori, in Italia, è ogni giorno sempre più drammatica: la disoccupazione cresce e i consumi calano drammaticamente.
Il bicchiere, quindi, è più che mezzo vuoto, ma proviamo a guardare in positivo: gli interventi in materia di lavoro, da parte degli ultimi governi, hanno mostrato una lenta (anche troppo, ma meglio lenta che inesistente) presa di coscienza, da parte dei governanti, cioè che il precariato è solo una gran fregatura.
Tutte le ultime riforme del lavoro (dalla Biagi alla Fornero), non hanno fatto altro che rendere sempre più instabile il mondo del lavoro italiano e con esso l'intero sistema economico, motivo per cui, da Monti in poi, si è tentato (con scarso successo, causato da limitatezza degli interventi e da risorse irrisorie) di incentivare le aziende ad assumere a tempo indeterminato.
La precarietà dei lavoratori italiani, dovrebbero capire i nostri politici, è il nodo fondamentale della crisi in cui si dibatte il Paese: un precario, infatti, non può accendere un mutuo, di conseguenza il mercato casa langue; non può esagerare con le spese quotidiane, divenendo, così concausa del forte calo dei consumi che affligge la nostra economia; finisce con l'essere costretto a ricorrere all'aiuto dei genitori per arrivare a fine mese.
Aggiungiamo anche il sempre più crescente fenomeno di delocalizzazione delle aziende, l'eccessiva pressione fiscale su imprese e salari, le incertezze della crisi internazionale e capiremo perchè il precariato sta diventando il colpo di grazia al nostro fragile mondo del lavoro.
Naturalmente, per risollevare le nostre sorti, non bastano nè il reddito minimo, in tutte le forme immaginate dai partiti, nè la misera paghetta ideata da Letta (servirebbero almeno 7-8 miliardi di euro), tra l'altro priva di una seria strategia per la reimmissione nel mercato del lavoro dei beneficiari. L'Italia non ha bisogno di un'elemosina, ma di una seria riforma del lavoro che tenga conto di:
1. La profonda immobilità sociale, che caratterizza il nostro Paese, impedisce l'emergere dei più meritevoli nei posti che contano: serve, quindi, una politica di redistribuzione del reddito, che permetta di emergere anche a chi, pur non avendo i mezzi, possiede talento e impegno.
2. Una varietà di contratti limitata a poche fattispecie.
3. Un maggiore compartecipazione tra mondo della formazione e mondo del lavoro.
4. Un welfare che non si riduca a mero assistenzialismo, ma che sia attivo nel permettere il ricollocamento del disoccupato.
E' questo che serve al Paese: questo e un progetto organico di riforma e rilancio dell'industria italiana, in tutti i suoi settori. In confronto alle necessità attuali dell'Italia, il reddito minimo minimo di Letta non è neanche un palliativo.
Danilo