Quelli che come me si vantano di essere in grado di considerarli giorni come tutti gli altri mentono sapendo di mentire. E così, come una pietanza particolarmente più gustosa nel normale, ci si ritrova ad osservare il piatto con qualche rimasuglio del condimento con quella nostalgia che ha eguali solo quando una canzone preferita finisce e di improvviso il finto silenzio ci impone di rintracciare le briciole di piacere acustico nelle ultime vibrazioni dei corpi attraversati dalle onde del suono. La metafora del cibo calza a pennello con le sensazioni postume, quel senso anomalo di gonfiore nelle membra e sulle dita schiacciate dalla fede nuziale, o sotto l’ombelico dove una cintura stringe un po’ di più. La metafora della canzone pure, sono feste piene di ritornelli di gioia che sono quelli che conosciamo di più e che ogni anno canticchiamo come se fosse la prima volta, cercando di non far accorgere nessuno che siamo felici, sempre che lo si possa dire. Fino a quando qualcuno molto più giovane di noi ma molto legato a noi, un figlio o un nipote a seconda di quanti anni abbiamo per esempio, fino a quando uno più giovane di noi ci pone la domanda che temiamo di più, alla quale non c’è una risposta standard. Che cosa gli possiamo rispondere? Tutto finisce perché tutto ha un inizio, tutto si consuma perché si esaurisce, non se ne esce e non conosciamo nessuna realtà delle cose diversa da questa.
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